BLACK SABBATH
The End Tour
13 Giugno 2016 - Live @ Arena di Verona (VR)
PAOLO FERRARI CARRUBBA
28/06/2016
recensione
Ci sono concerti che li desideri, li sogni con ardore e mentre ci pensi sul tuo volto si dipinge una smorfia amara per la consapevolezza che stai aspettando un qualcosa che non accadrà mai. Anni fa la reunion della formazione storica dei Black Sabbath era solamente questo, un sogno. L’illusione di poter veder dal vivo quel gruppo che quando avevi quattordici anni conquistò il tuo cuore, man mano che passavano gli anni si affievoliva, e andava via via morendo. L’adolescenza. Quel periodo in cui ti schiacci i brufoli e ti appassioni di musica, stai crescendo, non sai ancora bene quello che stai facendo, inizi ad avvertire le prime vocazioni, porte che si aprono e si chiudono, un turbinio di dubbi ma anche certezze. Per me la musica fu l’unica vera certezza in quel travagliato periodo che fu la mia adolescenza. La rabbia, la ribellione, l’instabilità di uno spirito dinamico, costantemente scombussolato, deluso, amareggiato. Ma poi la mano del giovane me si allungava verso la mensola, il dito scorreva sulla superficie di quei pochi dischi, e il polpastrello si fermava su “Vol 4”, e tutto il rumore che avevo in testa improvvisamente cessava, e si accendeva in me una passione, una ferma certezza, la più grande consolazione: quella musica era enorme, così affascinante e potente da riempirmi, confortarmi e formarmi in contemporanea. Un fuoco iniziava ad ardere dentro di me e capii subito che quella sensazione non mi avrebbe mai abbandonato. I Black Sabbath. E’ quasi pleonastico nel 2016 mettersi a parlare di quanto fu, è, e sarà fondamentale per la storia della nostra musica la formazione di Birmingham. Quattro giovani che nel 1968 erano il battito di una generazione scontenta, arrabbiata, confusa, ma abbastanza determinata da riuscire a incarnare un fortissimo spirito di rivoluzione; quello spirito che accomuna tutti i giovani. Quei quattro giovani nel 1968 erano me, erano te che leggi, erano tutti noi. Erano quello scomodo spirito luciferino che vuole brillare più forte di tutti gli altri, e loro ci riuscirono, ci riuscirono tremendamente. La fama, la grandezza, l’immortalità. E’ sempre giusto ricordare che stiamo parlando di coloro che furono i precursori di almeno 3 generi musicali distinti, fautori di un’eredità destinata a durare per sempre, oltre la carne, una memoria monumentale che scalfisce la prova del tempo. Ci hanno provato in molti, ma nessuno è mai riuscito a ricreare quel sound, quelle atmosfere storte, talvolta stonate eppure così incredibilmente perfette. Tony Iommi con otto dita sane a disposizione inventò il riff metal, la distorsione, il down-tune, quel cupo e potentissimo sentore che sarebbe diventato lo standard di moltissime band a venire, un’infinita fonte di ispirazione chitarristica. Ozzy Osbourne era un cantante impreciso e gracchiante, con quel timbro nasale, quasi irritante, eppure ancora oggi la sua voce è inimitabile. Bill Ward un batterista dallo stile inconfondibile, ruvido, eppure preciso, colmo di squisite influenze jazz figlie dei grandi Gene Krupa e Buddy Rich. Infine il bassista Geezer Butler, autentico innovatore dello strumento, colui che dalla sua passione per il blues fece nascere qualcosa di molto più oscuro ed epico. Il sentimento che permea la proposta musicale della formazione storica dei Black Sabbath ancora oggi la rende un baluardo ineguagliabile, e così, quando a cavallo tra fine 2010 e inizio 2011 si iniziò a parlare di reunion, di tour, di ipotesi di un nuovo album, il sottoscritto iniziò ad essere pervaso da un’esaltazione difficilmente quantificabile. Quell’illusione iniziò a diventare un qualcosa di concreto e verosimile, ogni cosa era al suo posto. Ogni cosa tranne Bill Ward, sostituito in tour da Tommy Clufetos, e più tardi in studio da Brad Wilk dei Rage Against The Machine. Varie sono le versioni ufficiali divulgate dalla band stessa per motivare l’assenza dello storico batterista, dalla questione contrattuale-economica, ai motivi di calo tecnico dovuti all’età. Probabilmente la verità giace nel mezzo, ma concretamente era avvenuto, tre quarti della formazione originale dei Black Sabbath avevano riunito le forze per regalarci dapprima un tour di concerti, e più tardi nel 2013 persino un album assolutamente degno di quel granitico moniker. E i così i Osbourne, Iommi e Butler decisero di scrivere l’ultimissimo capitolo della storia della band con un il The End Tour, l’ultimissima tournée di concerti per dire addio e grazie al pubblico, un’escalation di date destinata a concludersi il 4 febbraio 2017, simbolicamente proprio dove tutto iniziò, a Birmingham. Quando fu annunciata la tappa italiana del 13 giugno 2016, il sottoscritto stentò a crederci, ma l’acquisto del biglietto fu alquanto immediato. L’arena di Verona. Un monumento caratteristico, storico e pieno di fascino. I pareri sulla location erano contrastanti, il pubblico si divise infatti tra chi la definiva un’ottima soluzione per un evento del genere, e chi affrontava la questione con aria più scettica. Anche in questo caso la verità sta nel mezzo, ma affronterò l’argomento in seguito. Arrivo a Verona con 3 amici, e purtroppo arriviamo abbastanza in ritardo da perderci la band di supporto, gli statunitensi Rival Sons. Il sold out dell’evento è evidente, e probabilmente anche l’overbooking: L’arena è gremita, dalla platea alle poltrone, gli unici posti che riusciamo a trovare sono sulla scalinata più in alto, all’estremo lato destro del palco. Purtroppo la nostra posizione non si rivela favorevolissima, in quanto l’imponente scheletro metallico del palco copriva parte del mega schermo sul quale venivano proiettati primi piani della band durante la performance, limitando ahimè la visuale. Il clima è afoso ma nubi plumbee sovrastano l’arena, cade qualche goccia di pioggia ma fortunatamente il tempo rimarrà stabile fino alla fine dell’esibizione.
Alle 21 spaccate le luci si abbassano, faretti bluastri illuminano il palco e si avvertono i cupi rintocchi del brano di apertura: “Black Sabbath”, opener dell’omonimo debut album licenziato da Vertigo Records nel 1970; Il pezzo con cui tutto iniziò è un’ottima scelta simbolica per celebrare l’inizio della fine. Il riff lento e maestoso di Tony Iommi si fa subito protagonista, ogni giro è supportato da un colpo di campana, il tappeto ritmico di Clufetos è chiaro, pesante e preciso, così come il basso di Butler risulta incisivo, perfettamente distinguibile. Dunque attacca il funesto lamento di Ozzy, il quale appare inaspettatamente intonato e più grintoso di quanto ci si potesse aspettare. A metà canzone il singer esplode in una risata satanica che manda letteralmente in visibilio l’arena. Ora le atmosfere si fanno concitate per il finale del pezzo, un grandioso crescendo dall’incedere vorticoso e psichedelico. Buona la prima, le cose sono immediatamente chiare: saranno pure tre quarti della formazione storica, ma quel suono, quest’atmosfera, sul palco stanno suonando i Black Sabbath, non c’è alcun dubbio in merito. La retrospettiva del gruppo andrà a pescare a piene mani dal repertorio dei primi 4 album, offrendoci anche qualche perla decisamente inaspettata: la seconda traccia in scaletta è la prima di queste perle, parliamo infatti di “Fairies Wear Boots”, un brano storico tratto da “Paranoid”, altro disco pubblicato nel 1970 sotto Vertico Records, canzone fin troppo poco nominata dai fan, dato l’assoluto tenore della composizione. Il riffing vario e imponente infiamma l’aria, il basso jazzy si integra perfettamente nei fraseggi di Iommi, Ozzy Osbourne è in formissima, si diverte, coinvolge il pubblico in ogni modo e non smette mai di correre avanti e indietro per il palco. Sentire quei riff dal vivo è un’esperienza assolutamente commovente, non nego che più volte durante l’esibizione ho avvertito gli occhi lucidi, i quattro sul palco trasudano una passione concretamente palpabile, pura magia. Immagini psichedeliche e variopinte proiettate sul mega schermo arricchiscono l’esperienza uditiva, è un vero peccato che la posizione non mi abbia concesso di apprezzare a pieno tale psichedelia visiva. I sette minuti di Fairies Wear Boots scorrono con una velocità sorprendente, sono attimi fugaci che vorresti non finissero mai, eppure ci troviamo già catapultati nel terzo pezzo, “After Forever”, chicca tratta da “Master of Reality”, terzo album in studio del combo rilasciato nel 1971 sempre da Vertigo Records, probabilmente il lavoro più doomy del repertorio della band. L’intro è affidato a una tastiera ipnotica e onirica, e poi le ariose trame di basso e chitarra supportate dal drumming impetuoso di Clufetos creano un groove irresistibile che non può far a meno di farci scuotere allegramente i glutei. L’atmosfera briosa dei seventies è incredibile, la storia della musica rivive con ardore in questi attimi di estasi e contemplazione; Ozzy ruggisce, la sua performance è onestissima e sentita, e fortunatamente questo standard rimarrà costante per tutta la durata del concerto. Il prossimo estratto, sempre tratto da Master Of Reality, sarà “Into The Void”, altro brano dal grandioso impatto live: il celebre riff di apertura si attorciglia e si evolve fino a creare un muro di suono dinamico e malato, poi l’ondoso basso di Butler si fa protagonista per introdurre le strofe, e così inizia l’alternanza tra le vocals solenni e i fraseggi bombastici di Iommi. Puro spettacolo, il coinvolgimento è ai massimi livelli. A metà canzone la grooveggiante accelerazione del drumming ci regala un altro altissimo momento di mesmerismo sonoro. Ora la variazione del riff portante, la ripetizione dell’ultima strofa e infine una maestosa sezione solistica offerta dal riff master Iommi. Resomi conto del prossimo titolo in scaletta, la mia esaltazione raggiunge l’apice: “Snowblind” è il brano in questione, l’unico pezzo estratto da “Vol 4”, disco licenziato ancora dalla Vertigo Records nel 1972. La canzone è un inno alla cocaina, il grido di una generazione che identificava la propria ribellione nella trasgressione, nell’eccesso. Una composizione storica, indimenticabile e magistralmente interpretata dai nostri; il pubblico non può fare a meno di cantare ogni riff, da quello di apertura a quello finale, tutta l’arena batte le mani ed esplode vigorosamente quando Ozzy gracchia quel tanto atteso “cocaine!”. Ora la canzone rallenta, il tono si fa solenne per la leggendaria sezione centrale in cui il crescendo emotivo di Osbourne diventa assoluto. Ora un magistrale assolo di Iommi, e l’altro attesissimo picco del brano, rappresentato da un’accelerazione dinamica ed assolutamente groovy, e poi il finale atmosferico e sentito, pura magia. Per la sesta traccia i Sabbath propongono un altro pezzo storico tratto da “Paranoid”, l’intramontabile “War Pigs”, altro inno profondamente rappresentativo degli ideali della Beat Generation, una satirica tirata di capelli che critica la politica americana e la guerra in Vietnam. L’atmosfera è surreale, Ozzy annuncia il titolo e la folla impazzisce, la celebre sirena apre il brano e viene immediatamente scandita dal drumming di Clufetos e dai fraseggi distesi ma severi di Iommi, Butler riesce a inserirsi puntualmente con accordi affusolati e mai scontati. E poi l’esplosione del riff portante, sincopato e trascinante. Tutta l’arena canta, probabilmente in questo caso riscontriamo la miglior performance offerta da Osbourne, il suo incedere risulta infatti potente e arioso. Altre lacrime al cospetto di un monumento sonoro di tale portata, “OH LORD YEAH” , la sezione finale di War Pigs come era prevedibile è il momento più epico dell’intera serata, risulta impossibile non intonare a gran voce il riff di Iommi, davanti a cotanta magnificenza c’è solamente da inchinarsi. E lo stesso Osbourne, personaggio spocchioso e pittoresco, si inchina infine davanti alla platea, rendendo grazie al pubblico. E’ una messa, un rito, c’è una simbiosi platonica tra la band e il pubblico, sorge dunque spontaneo chiedermi: sogno o son desto? La prossima doppietta di brani, entrambi estratti dal debutto, mi ricordano che sono tremendamente desto: “Behind The Wall Of Sleep” è un’altra sorta di rarità, una di quelle canzoni che in pochi avrebbero concretamente pensato di veder proposta dal vivo, e invece i nostri vogliono sorprenderci fino in fondo, e anche in questo caso la performance si rivela vincente; un riff sognante e settantiano ci travolge in pieno, il drumming versatile di Clufetos introduce la strofa. Probabilmente il pezzo più classicamente rock della scaletta, sia il riffing che la sezione solistica sono figlie dei Cream, il brano gronda blues eppure riesce perfettamente a mantenere quell’impatto granitico, marchio di fabbrica del combo. Adesso Ozzy incita l’arena a battere il tempo della batteria, e improvvisamente Butler offre un bellissimo assolo di basso, che presto si evolve in “Bassically”, l’intro della monumentale “N.I.B”, altro brano leggendario a tematica esoterica, annoverabile tra i primi esperimenti proto-metal della storia della musica. L’equilibrio tra impatto ed emotività è superbo, la tensione rimane stellare, il pubblico anche in questo caso non si risparmia dal cantare ogni strofa, ogni riff, ogni ritornello, la partecipazione è immensa e la performance strepitosa. Inutile parlare di quanto siano indimenticabili sia il refrain che le strofe del brano, “Nativity In Black” per il sottoscritto rimane uno dei più lampanti esempi di perfezione compositiva. La nona traccia in scaletta è rappresentata da un’altra proposta inusuale, “Hand Of Doom”, brano caratterizzato dalla vincente alternanza tra strofa doomy e ritornello psichedelico ed esplosivo, una soluzione assolutamente trascinante e d’impatto, nella quale Ozzy riesce a brillare ancora una volta in un’apparente seconda giovinezza vocale. E’ incredibile quanto la sesta traccia di “Paranoid” nel 2016 riesca a suonare ancora così moderna e attuale nella sua struttura compositiva variegata: La sezione centrale, come da copione rappresenta un’esplosione di emozioni, il drumming martellante crea un incedere crescente che travolge il pubblico mandandolo in delirio, l’immensità fatta suono. L’arabeggiante sezione solista di Iommi ci traghetta verso un rallentamento dai toni doomeggianti, destinato a infuocarsi nell’ultimo, epico refrain. A questo punto il finale di “Hand Of Doom” evolve nella splendida ed immancabile jam strumentale “Rat Salad”, altro estratto da “Paranoid2, al termine del quale il drummer Tommy Clufetos ci offre un eccellente, lungo e articolato assolo di batteria durante il quale il resto del gruppo si prende una pausa dietro le quinte. Dopo qualche minuto di silenzio un cacofonico riverbero di chitarra inonda l’arena, e il gruppo torna in scena proponendo l’ennesimo, irrinunciabile brano storico, “Iron Man”. Il riff portante della canzone è famosissimo, ultra inflazionato, eppure suona ancora fresco e coinvolgente. Nessun membro fin ora accusa momenti di stanca, il livello della performance rimane costante e il pubblico pare condividere quest’energia apparentemente inesauribile, la magia della simbiosi continua in un alone di euforia universale: Le vocals sono leggenda, l’assolo è leggenda, ogni dettaglio è al posto giusto in questo caleidoscopico connubio di arte e perizia. A questo punto con rammarico di chi scrive, giungiamo all’unica nota dolente dell’esibizione, “Dirty Women”, canzone estratta dallo sfortunato “Technical Ecstasy”, album pubblicato nel 1976 sempre da Vertigo Records. Il pezzo non va, non fila, non scorre, sei minuti che suonano forzati e innaturali, permeati da soluzioni sonore che ammiccano al progressive rock dei primi Rush, trovate tecnicamente interessanti, che tuttavia stridono fortemente con la natura originaria dei Black Sabbath. Fin ora la scaletta era stata perfetta ed equilibrata, incentrata solo ed esclusivamente su brani classici, favoriti dalla stragrande maggioranza del pubblico; dunque la scelta di questo brano mi ha lasciato perplesso e pacatamente deluso: Il pezzo in questione in senso obiettivo non risulta ne tragico ne pessimo, tuttavia sarebbe stato auspicabile riempire quei sei minuti con qualche brano assai più memorabile come “The Wizard”, l’amatissima “Sabbath Bloody Sabbath” o qualche estratto dal monumentale “Sabotage”. Ci avviciniamo ora al termine del concerto, con il primo bis fortunatamente l’esibizione torna a livelli stellari, grazie all’esecuzione dell’ultimo estratto da “Master Of Reality”: il cavalcante riff di “Children Of The Grave” infervora l’arena, abbiamo a che fare con uno dei massimi picchi creativi del combo, ennesimo inno alla beat generation, che questa volta si traduce in una dura invettiva contro l’uso delle armi atomiche. Il riff portante del pezzo è uno dei fraseggi più imitati nella storia del rock e del metal, questo dato è sintomatico per comprendere ancora una volta la storicità del materiale proposto. Sul palco abbiamo quattro leoni, ancora una volta il muro di suono rimane costante fino alla fine del brano e Ozzy sorprende per l’immensa energia catalizzata nella performance. Al termine della canzone la band abbandona il palco tra gli applausi e l’abbandono causa una serie di fischi. Tuttavia ben presto dalle quinte sbuca Ozzy che declama a gran voce “I wanna hear you scream one more song, one more song”. L’intera arena sa che questo rito può esser finalizzato a introdurre solamente un pezzo dei Black Sabbath, uno ed uno solo, probabilmente il più ascoltato, il più coverizzato, il più condiviso e canticchiato. Quella canzone che nella sua semplicità catapultò definitivamente i quattro di Birmingham nell’Olimpo della musica: “Paranoid”. Un riff semplicissimo, una struttura lineare e immediata, fatta per aggrapparsi all’orecchio dell’ascoltatore e rimanere in mente a lungo, una linea di basso ipnotica e ancora oggi attuale, questo brano è l’unico veramente degno di chiudere un concerto di questi mostri sacri. Tutto il pubblico è in piedi e tiene il tempo battendo le mani, ballando, cantando. Un finale meraviglioso, senza fronzoli o riti troppo nostalgici, i Black Sabbath finiscono la loro immensa rievocazione storica, fanno un sobrio inchino di gruppo e abbandonano il palco sommersi dagli applausi di tutta l’arena. La commozione prende il sopravvento, ho appena realizzato di aver assistito a un concerto della più grande band di tutti i tempi.
Tiriamo ora le somme della serata. Stanchi e soddisfatti io e i miei amici, compagni di concerti, ci allontaniamo dall’arena seguendo un fiume di persone, poco dopo il cielo scoppierà in un diluvio infernale che ci accompagnerà fino al rientro. La mente è confusa, l’ipnosi è stata concreta, la magia ha vinto ed è difficile razionalizzare quanto accaduto. Per qualche avventore dell’ultima ora che ignora l’effettivo valore storico del gruppo, i Black Sabbath potrebbero essere scontati, mainstream, vecchi e decrepiti; ma per chi come me vive questa passione in maniera viscerale, profonda e sincera, assistere a un concerto del genere risulta una vera e toccante esperienza di vita. Considerando il lato prettamente tecnico dell’esibizione, è impossibile non muovere delle critiche all’organizzazione: se la performance del combo è stata impeccabile e sentita, la resa sonora è stata penalizzata dalla struttura poco adatta. L’acustica dell’arena di Verona è eccellente, ma la presenza di abitazioni limitrofe ha costretto gli organizzatori e i tecnici a mantenere un volume decisamente inadeguato al tenore e al genere dell’esibizione. Se i suoni erano chiari e perfettamente distinguibili per ogni strumento, il volume in generale era veramente troppo basso. Concretamente quando il pubblico andava in delirio ed applaudiva copiosamente, il suono della chitarra veniva completamente coperto e sotterrato dallo stridio degli applausi. Si può dunque affermare che la location, nonostante abbia costituito una scelta caratteristica e particolare, sia anche risultata inadeguata a una manifestazione del genere. Sorgono dunque spontaneamente delle perplessità e degli interrogativi per quanto riguarda l’organizzazione della Live Italy: se a una boy band di primo pelo come gli One Direction è concesso di svolgere un concerto in uno stadio dalla capienza significativamente maggiore, e probabilmente anche dalla miglior resa sonora, per quale ragione a degli indiscutibili mostri sacri come i Black Sabbath non può esser concesso il medesimo trattamento? Ai posteri l’ardua sentenza. Dunque ricapitolando le varie riflessioni, chi scrive si ritiene indubbiamente soddisfatto dell’esperienza, da una parte sento di aver assistito a un’esibizione magica, indimenticabile. Dall’altra mi rendo fattivamente conto che la resa sonora sia stata penalizzata in modo severo dagli elementi sopra analizzati. La scaletta proposta dai nostri è stata pressoché perfetta, tutti i brani suonati risultano infatti traguardi significativi per la storia non sono del gruppo, ma anche della musica stessa, fatta eccezione della ridondante Dirty Women, la cui scelta rimarrà sempre un grosso punto interrogativo. A questo punto posso solamente ritenermi fortunato per la mia appartenenza all’ultima generazione a cui è stato concesso di poter assistere a un’esibizione dal vivo dei Black Sabbath. Noi tutti che abbiamo partecipato a tale evento, dobbiamo avere la consapevolezza storica di essere dei privilegiati. Auspico che il ricordo di questa incredibile band continui a rimanere vivo, tramandandosi nelle generazioni a venire in forma di ardente passione. La musica evolve e i tempi cambiano, così come si manifestano nuovi idoli al morire di altri, tuttavia per comprendere e saper interpretare al meglio la realtà che ci circonda, è fondamentale, indiscutibilmente necessario continuare a ricordarsi delle nostre radici culturali e artistiche, poiché l’arte è cultura, e questa dicotomia rappresenta un ritratto, specchio della società, e riflesso imprescindibile della nostra contemporaneità. E dunque al termine delle mie sentite considerazioni, ritengo rimanga da dire solamente una cosa: Grazie. Grazie di cuore a Ozzy Osbourne, Tony Iommi, Geezer Butler e Bill Ward, per averci resi fruitori di una simile, immortale eredità artistica e culturale.
1) Black Sabbath
2) Fairies Wear Boots
3) After Forever
4) Into the Void
5) Snowblind
6) War Pigs
7) Behind the Wall of Sleep
8) N.I.B.
9) Hand of Doom
10) Rat Salad
11) Iron Man
12) Dirty Women
13) Children of the Grave
Encore:
14) Paranoid