U2

War (cover art)

1983 - Island Records

A CURA DI
ANDREA ORTU
27/03/2018
TEMPO DI LETTURA:
9,5

recensione

Nel 1983, gli U2 scrivevano un pezzo importante di storia del Rock: War. Per ragioni che in parte mi sfuggono, la band di Bono ha oggi una gran quantità di detrattori, dinamica che di certo ha avuto a che fare con la saturazione culturale di un certo tipo di linguaggio, anche e soprattutto in termini d’immagine, ma che come al solito si è trasformata in moda fine a se stessa e finto-intellettuale. Piaccia o meno, tuttavia, l’album che ospita Sunday Bloody Sunday ha influenzato ogni prodotto artistico venuto in seguito, non solo rock, e non solo musicale. Il punto non è l’intrinseca qualità dell’opera, ma la sua penetrazione e ramificazione a livello culturale e stilistico, un impatto sulla società che inizia non già dal primo ascolto, ma dal primo sguardo su una copertina che riassume con autorialità artistica lo spirito del disco, l’essenza profonda di quelle dieci tracce storiche. Niente di apparentemente complesso: un primo piano in bianco e nero sul volto di un bambino di circa otto anni, leggermente spostato a sinistra e dai bianchi sensibilmente saturi. L’espressione seria, insieme spaventata ma come di sfida, la ferita sul labbro e i capelli accuratamente disordinati, sono gli elementi fondanti del soggetto e del suo significante, quel senso della tragedia che conferisce al bambino raffigurato una maturità che non gli si addice, e che ci addolora. Dietro di lui, le sue braccia alzate posano le mani dietro la testa, in evidente segno di resa. Qualcuno potrebbe obiettare che, dopotutto, fotografare il viso di una persona non è né difficile, né particolarmente originale, ma avrebbe terribilmente torto. Oggi il nostro immaginario, e con esso il nostro senso del gusto, è in qualche modo riempito e appiattito da oltre dieci anni di selfie e foto profilo, ma per comprendere l’essenza del ritratto fotografico e della sua evoluzione a fianco di altri medium – in questo caso, l’industria discografica – è necessario ritrovare le grandi tappe della sua evoluzione.

La storia del ritratto è antica quanto l’arte stessa, quindi quanto l’uomo, e la sua evoluzione è stata continua, costante e inarrestabile, di epoca in epoca, in linea col mutare del pensiero, della geografia, della fede, delle umane vicissitudini. Durante questo lungo cammino, la ritrattistica ha conosciuto i suoi luoghi topici, come d’altronde ogni altro elemento frutto di quell’astrazione che è unica dell’essere umano; momenti essenziali di evoluzione, radicazione nel tessuto sociale e base essenziale di una successiva crescita. Alle origini, il linguaggio predominante era quello magico-divinatorio, poi simbolico e mortuario, in seguito ideale e infine, presso i romani, portato a quel crudo realismo in cui tutt’ora s’identifica l’immaginario occidentale. Naturalmente, nessuno di questi differenti linguaggi è mai realmente scomparso, sovrapponendosi agli altri in un mosaico in perenne e caotico movimento, talvolta eclissandosi per secoli per poi, magari, tornare a radicarsi nuovamente per altrettanto tempo, ibridandosi, fondendosi inevitabilmente con le derive del suo tempo. In seguito al ritorno ad un simbolismo mistico dai tratti quasi atavici, caratterizzante buona parte del medioevo cristiano, la tradizione ritrattistica è tornata via via sulle sue antiche orme, riportando al mondo dell’arte sia l’ideale classico, sia la riproposizione fedele e tridimensionale della realtà, conservando il simbolismo metafisico dei cristiani e sovrapponendolo al ritrovato classicismo prima,  e alla modernità pre-borghese dei fiamminghi, poi. Dì lì, la ritrattistica è andata perfezionandosi all’inverosimile dal rinascimento all’età barocca, fino ad arrivare quasi inalterato nei sui presupposti fondanti alla rivoluzione industriale, e dunque, trovando infine la sua chiave di volta nell’invenzione della fotografia, nella conseguente ricerca di una nuova sensibilità, e nelle vorticose e complesse dinamiche che hanno dominato il ventesimo secolo: la guerra totale, l’evoluzione tecnologica, la pulizia etnica, la propaganda, le dittature nazionali, il capitalismo, il comunismo, la guerra fredda. E di conseguenza, anche nell’antitesi di tutto questo. Sul piano sociale, la fotografia ha avuto un merito molto particolare: ha raccontato le classi medie e proletarie laddove l’arte tradizionale raccontava quasi esclusivamente l’aristocrazia, il potere e le classi più benestanti, modificando quindi il corso della narrazione per immagini della storia umana in maniera netta e definitiva. Una simile caratteristica è perfettamente in accordo con la poetica degli U2, con quella critica sociale e politica che ha sempre dominato il loro background, la loro idea di arte intesa come armonica fusione tra intimismo e pubblico impegno. In tal senso, la copertina di War rappresenta l’esempio più immediato e lampante di tale concetto, anche e soprattutto in virtù del suo legame con quella di Boy, album di debutto della band irlandese. Il primo disco degli U2 rappresentava lo stesso bambino, ma con un atteggiamento ben differente: il volto era teso, ma non spaventato, e le braccia alzate ne distendevano la figura sullo sfondo, senza andarsi a posare tragicamente sulla nuca del soggetto. Quella figura rappresentava la crescita, sia umana che professionale, metamorfosi del corpo e dello spirito insieme spaventosa e meravigliosa, di certo inevitabile. In quel caso, gli irlandesi davano sfogo all’esigenza di uno sguardo intimo e personale, ed ogni soggetto narrato e ogni canzone, anche politica, finiva piegata a quell’attitudine introspettiva. Due anni dopo, War riprendeva il filo di quello stesso discorso portandolo però all’esterno, verso il mondo e il suo caotico turbinare, le sue bellezze ma soprattutto le sue ingiustizie, le violenze, gli abusi. Dopotutto, scoprirne gli orrori e aprirsi comunque al mondo, è parte integrante di quella crescita che era e sarebbe rimasta parte fondamentale della poetica degli U2. Ora, un soggetto fotografico del genere, così maledettamente carico di presupposti, era cosa affatto scontata in ambito discografico. Normalmente si sceglieva una foto della band o un primo piano sul cantante di turno, optando al massimo per una stilizzazione cromatica che ne risaltasse la visione sugli scaffali. Molto spesso, tale soluzione era preferibile quando non era possibile permettersi un artwork di pregio, o quando si voleva andare sul sicuro sul piano della visibilità nei negozi e nell’immaginario comune, laddove soggetti più complessi potevano rappresentare un appetibile ma rischioso salto nel vuoto. Ovviamente, c’erano già state copertine dal marcato richiamo simbolico o metaforico, di solito caratterizzate da composizioni articolate e sovrabbondanza di soggetti, ma ben poche avevano il dono della sintesi, e nessuna che l’applicasse alla ritrattistica con tanta consapevolezza come riesce a fare la copertina di War. Curiosamente, gli U2 all’inizio erano contrari a riutilizzare lo stesso bambino di Boy sulla copertina del nuovo album, preferendo un più immediato e palese riferimento alla guerra, ma la direzione artistica aveva le idee molto chiare in proposito, e a buonissima ragione. D’altro canto, quando hai due professionisti come Steve Averill e Shaughn McGrath a lavorare per te, non fai di testa tua, ma ti affidi a chi ha le migliori competenze sul campo. Steve, classe 1950, è un artista, un grafico, uno scrittore, un musicista e… un punk, anche se oggi non si direbbe; ma d’altra parte chi non era punk, nella Gran Bretagna degli anni ’80? La carriera musicale dell’artista fu breve, ma la permanenza nei Radiators From Space – una delle primissime punk band dublinesi – gli permise di intessere una rete di conoscenze utili a lanciare la propria carriera creativa, orientata fin da subito agli artwork di copertina (branca all’epoca di ben altro spessore rispetto ad oggi). Fu proprio Steve Averill a proporre il nome “U2”, ben presto preferito al precedente “The Hype”, e da allora avrebbe curato ogni singola uscita della band irlandese, forte della sua collaborazione con l’altrettanto talentuoso ma ben più ombra McGrath, probabilmente il vero “squalo” dei due, abile nel monetizzare il suo lavoro e nel creare nuovi brand dal nulla, e tutt’ora direttore artistico della AMP Visual, l’agenzia di design fondata da lui e Averill. Nonostante le loro indubbie capacità, tuttavia, i due non giunsero certo a realizzare una copertina tanto iconica dall’oggi al domani, specialmente considerata la natura derivativa, in termini grafici, degli artwork di copertina. Il linguaggio da loro scelto affonda le radici in quello scorcio di storia dell’arte che abbiamo già sintetizzato, ma si evolve ulteriormente in oltre cento anni di arte fotografica. Dal primissimo autoritratto di un pioniere del mezzo fotografico, Robert Cornelius, datato 1839, la fotografia si è evoluta pian piano non solo a ritrarre la realtà così com’è, ma anche ad immortalare nell’eternità d’un istante il non detto, il senso non visibile eppure percepibile delle cose. Proprio come nel caso di War, a volte quel non detto è voluto e ricercato, mezzo visivo d’espressione concettuale che supera i limiti imposti dalla parola; il primo esempio in tal senso è una foto di Hippolyte Bayard, che nel 1840 si contendeva il titolo di padre della fotografia con Louis Daguerre. Lo scatto di Bayard è insieme macabro e demenziale, una sorta di messa in scena nata per protesta nei confronti delle istituzioni francesi, le quali, nella loro rigida burocrazia, avevano accreditato l’invenzione al più scaltro Daguerre… sì, esatto, proprio quello del dagherrotipo. Nel suo scatto, Bayard si raffigura morto e pone anche un sarcastico epitaffio, usando per la prima volta la fotografia come veicolo di polemica, nuovo tramite mass mediatico di giustizia individuale e sociale. Né più né meno di quello che avrebbe fatto la copertina di War quasi centocinquant’anni dopo, sebbene forte di una consapevolezza maturata in decenni di evoluzione sia tecnica che artistica. Ma il ‘900 non è stato solo protesta consapevole, anzi, in molti casi è stata la realtà stessa a divenire casuale veicolo di messaggi sociali e politici, attraverso la grande rivoluzione dell’immagine impressa su pellicola. Viene in mente ad esempio il volto contrito di Florence Owen Thompson, la cosiddetta Migrant Mother, ritratta assieme ai suoi figli nel 1936 in California e divenuta icona dei più poveri, degli onesti ma disagiati lavoratori, una donna il cui sguardo cattura la paura per il futuro e la miseria più assoluta del presente. Non diversa, se non fosse per le origini, da tante madri e ragazze madre dell’Irlanda fra gli anni ’70 e ’80, costrette a lasciar vivere ai loro figli i pericoli della strada per trovare il tempo di lavorare, per dar loro una vita che sia almeno dignitosa. Tuttavia, l’esempio più eclatante è rappresentato proprio dallo scatto che più di ogni altro ha influenzato la cover art di War: la celebre foto che ritrae alcuni sfollati, superstiti del ghetto di Varsavia, tra i quali spicca un bambino con le mani alzate e gli occhi terrorizzati, sotto lo sguardo freddo e il fucile delle SS. Rimasta negli archivi per molti anni, la foto divenne famosa solo nel 1960 in seguito alla sua pubblicazione su “La Stella Gialla”, di Gerhard Schoenberner, trasformandosi nel simbolo di tutte le vittime della shoah ma acquisendo, col tempo, un’aura che va ben oltre gli eventi storici e diviene iconica, non più simbolo di circostanze ben precise ma di ogni ingiustizia, di ogni violenza perpetrata su qualsiasi innocente. Un Cult. Ma quello del bambino di Varsavia non è l’unico esempio: dai ragazzini tedeschi della Hitler Jugend alle vittime della guerra in Vietnam, passando per l’Africa e l’Europa dell’est, fino ad arrivare alle strade pattugliate da militari armati in una Dublino nei suoi anni di piombo, la storia dell’ultimo secolo è piena, anzi, stracolma di foto che ritraggono l’innocenza spezzata nei volti di bambini terrorizzati, disorientati, disperati, trascinati in un orrore cui non appartengono e che non capiscono, trasformandosi in simbolo per tutti coloro che ripudiano la guerra. Non necessariamente il conflitto, non necessariamente la violenza: ma la guerra. Quella che annienta intere città allo schiocco di dita di un War Pig, per citare i Black Sabbath. I due direttori artistici, Averill e McGrath, non hanno fatto altro che bere e piene mani da quest’eredità storica e immaginifica, piegandone magistralmente il valore espressivo alla poetica della band, al suo impegno sociale e al valore dei suoi brani. Naturalmente, il bimbo ritratto sulla copertina dell’album non ha vissuto alcune violenza, non è parte della storia delle guerre e delle miserie, ma solo di quella della musica; è un interprete, un attore la cui drammaticità è divenuta iconica al pari di quella di Anna Magnani nello scatto di Philippe Halsman, e il cui sguardo s’imprime con ricercata consapevolezza su quello dell’osservatore. Agli orrori cui il suo viso è idealmente rivolto, e che la storia della fotografia ha rappresentato, quel bambino contrappone una resa incondizionata e stanca, una resa che significa deposizione delle armi, ricostruzione, amore, vita. E speranza. La capitolazione, la rinuncia alle armi, era la sintesi perfetta di Sunday Bloody Sunday, dello sgomento del protagonista del brano di fronte alla violenza non solo inglese, ma anche irlandese, all’assurdità di un fratricidio condito di razzismo, pregiudizi e stereotipi reso ancora più assurdo e avvilente da una situazione politica surreale, dal fatto che nonostante tutte le divergenze possibili, anche e soprattutto religiose, si trattasse di uno spargimento di sangue tra vicini di casa e fratelli. Era questo, in fondo, che agli U2 interessava più di ogni altra argomentazione: l’Irlanda e la sua attualità. Offrire al pubblico mondiale una simbologia che fosse universale era una mossa conveniente in termini economici, e anche intelligente e sensata in termini artistici, ma in definitiva, tutto nasceva dal conflitto nord-irlandese, da quell’assurda guerra che aveva devastato una regione minuscola, sconvolta dal braccio armato di una potenza economica e presa in ostaggio dal terrorismo. Tutto questo, nient’altro che in sintesi, è l’universo di simboli e l’eredità storica che racchiude un singolo, semplicissimo scatto fotografico, il ritratto di un bimbo trasformatosi in icona pop il cui merito, tra le altre cose, è di aver contribuito a lanciare gli U2 nel firmamento del Rock.

Oggi, quel bambino ha 44 anni ed è un affermato fotografo. Il suo nome è Peter Rowen, vive a Dublino ed è il fratello di Derek Rowen, alias Guggi, un artista avant-garde e post punk famoso per la sua militanza nei Virgin Prunes, nonché vecchio amico di Bono. Oltre a “Boy” e “War”, Peter compare su molte altre copertine degli U2, comprese “Early Demos”, “Three”. il singolo di "I Will Follow", la raccolta “The Best of 1980-1990”, e diversi altri singoli, tra cui naturalmente quello di "Sunday Bloody Sunday". Il suo talento è genuino, come pure i numerosi riconoscimenti alla carriera, un’abilità che non lascia dubbi sulla buona fede del suo lavoro. E a proposito della sua professione, nonostante egli stesso indichi nell’antica passione per il disegno e nell’influsso di un amico il suo amore per la fotografia, e non a una sorta di imprinting dovuto all'esser diventato icona di massa quasi per caso, a me piace pensare all'ironia quasi poetica del trovare la fama da un lato dell'obiettivo, e il proprio futuro come professionista e come uomo, dall'altro.