THE BEATLES
The Beatles (White Album)
1968 - Apple Records

NIMA TAYEBIAN
25/11/2015











recensione
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Una presentazione abbastanza strana, uno sfondo totalmente bianco, un album dalla "copertina particolare" (in che senso lo vedremo poi) del quale oggi vogliamo parlarvi. Un disco divenuto con gli anni leggendario, di un gruppo già leggendario nell'epoca in cui era ancora in attività. Ad essere sotto i riflettori, stavolta, sono i Beatles, con il loro sublime "White Album", o più correttamente "The Beatles". Il nostro infatti, dotato dello stesso nome della band di cui sopra, è stato ribattezzato con questo nomignolo - che ben presto è divenuto un'altro nome per identificarlo - proprio in virtù della copertina, completamente bianca con solo la scritta "The Beatles" a troneggiare "nel bianco dipinto di bianco". Un'operazione strana, che comunque, in virtù del loro nome e della loro fama, i nostri si sono potuti tranquillamente permettere. Una stranezza destinata ad avere, con diverse modalità, anche degli epigoni: dalla copertina senza titolo dei Led Zeppelin (parliamo del quarto album dei nostri) al riciclaggio dello sfondo monocromatico (i Metallica, tanti anni più tardi, con il celebre "The Black Album" o "Metallica". Da notare in questo preciso caso come l'operazione sia praticamente identica). Per non tacere della rilevanza cromatica sugli album dei Baroness ("Red Album", "Yellow And Green", "Blue Record" tanto per citarli velocemente e non in ordine). Una lezione assimilata poi anche da artisti locali, come ad esempio Lucio Battisti, che nel suo album del 1994 "Hegel" adotterà una veste grafica simile. Ermetica, con il bianco protagonista e neri elementi grafici di contorno. Dunque un album che già, fuori dai suoi contenuti, ha fatto scuola per la sua impostazione. Naturalmente se poi andiamo sui contenuti possiamo sottoscrivere milioni di volte quanto asserito un attimo fa. Un album cruciale nella storia della musica (per quanto i Beatles siano stati durante l'arco di tutta la loro carriera dei fondamentali "costruttori" di tanta materia sonora utilizzata poi dai posteri). Ma questo, inutile specificarlo - almeno per chi sà di cosa sto parlando - è l'album di "Helter Skelter", uno dei mattoni fondamentali per la nascita e la crescita del genere "pesante". Qui infatti troviamo materia fertile destinata a germogliare in generi come il punk e il metal. Il pezzo in questione è un ibrido di proto-metal e proto-punk, fragoroso, assordante, pacchiano. Un pezzo che voleva essere, all'epoca, una delle robe più caotiche e frastornanti mai prodotte, il cui concepimento è legato a doppio filo ad un singolo dei Who chiamato "Can See For Miles". Mi spiego. Dunque, nel 1967 i Who avevano pubblicato il singolo di cui sopra, giudicato poi in un articolo di giornale come un concentrato caotico di suoni. La cosa impressionò notevolmente Paul Mc Cartney, tanto che questi decise di creare con il suo gruppo qualcosa di simile. Quindi, il 18 luglio del'68, Paul si ritrovò in studio con gli altri tre "scarafaggi beat" e insieme, i quattro, buttarono giù le prime prove del brano: un concentrato frastornante e caotico di rock duro ed estremamente rumoroso. Furono tre i nastri incisi, dei quali uno sembra si prolungasse per oltre mezz'ora. Tali nastri di prova furono considerati logicamente troppo lunghi, cosa che obbligò i nostri ad una seconda seduta. Questa si tenne il 18 settembre e li obbligò a ben 18 riprese, durante le quali riuscirono a rimodellare il pezzo esattamente come lo conosciamo oggi. Il brano divenne poi tristemente celebre per aver ispirato certi delitti di Charles Manson: pur essendo uno dei pochi brani a non contenere metafore o allusioni, Manson ebbe a vederci un presunto messaggio su un futuro scontro razziale - tra bianchi e neri, nel quale i primi dovevano essere sconfitti e i secondi si sarebbero radunati sotto il potere di Manson - promulgato da quattro personaggi (i Beatles) che per il nostro amico pazzoide in realtà incarnavano i Quattro Cavalieri Dell'Apocalisse. Questa lunga digressione sul brano in questione - abbastanza bizzarra considerando che quasi mai ho privilegiato un brano rispetto agli altri tanto da dilungarmi inverosimilmente su di esso rischiando di distogliere l'attenzione sul vero oggetto della recensione (la copertina) - risulta necessaria perchè, aldilà della parte iconografica - quella che in realtà ci interessa veramente - il disco ha un valore intrinseco per qualsiasi metaller proprio in virtù di un brano del genere, tassello indispensabile (come già specificato) per la creazione del "metallo pesante". Logicamente non è il solo brano da prendere in considerazione data la bellezza in toto di tutto il disco (è uno dei miei preferiti del combo inglese): sarebbe impossibile dunque non citare l'immortale motivetto di "Ob-La-Di, Ob-La-Da", la perfezione di "Revolution" o la sperimentalità della quasi omonima "Revolution 9" (interessante prodomo per la futura carriera solista, altrettanto sperimentale di John Lennon), o la stragrande maggioranza dei brani contenuti in questo autentico gioiello multiforme. Comunque, come ricordato, la parte "iconografica" è quella che maggiormente interessa a questa sede. Lascio dunque a chi se ne occuperà tra le recensioni "normali" l'onere e l'onore di occuparsene in maniera più approfondita. Arriviamo quindi alla copertina. Una cover incentrata sulla poetica del "vuoto", del "nulla", della "cancellazione". A risaltare, ad ergersi a protagonista assoluto, è il bianco, candido, vacuo, innocente. Bianco evanescente, capace di stordire, capace di risucchiarci all'interno della sua coltre esangue per renderci un tutt'uno con il concetto di nulla. Annichilirci. Un bianco che pur essendo usato concettualmente per altri scopi (è l'espressione dell'autosufficienza dei Beatles, la loro superiorità su tutti i dogmi precostituiti delle case discografiche, la loro dichiarazione di forza oltre le semplici iconografie "pubblicitarie" - all'epoca i Beatles erano simili a Dio, e Dio ha forse bisogno di essere raffigurato o sponsorizzato?) non manca di tramortirci data la sua forza impattante, rafforzata da quella scritta in grigio scuro - "The Beatles" - che rende la cover quasi un'opera di arte concettuale. Non fosse per quella scritta, a sporcare il nebuloso non-colore, sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un dipinto di Robert Ryman, poeta del bianco, colui che non ha mai smesso di sperimentare con tele completamente bianche e rigorosamente quadrate al fine di sondare nuove espressioni artistiche. Ma non si tratta di un'opera di Ryman, nossignori - e quel titolo scuro Ryman non l'avrebbe mai messo - ma di un'idea scaturita da un altro celebre artista, ossia Richard Hamilton, non un concettuale ma stranamente un'artista pop. Ed è strano che uno dei rappresentanti della cosiddetta Pop Art, famoso generalmente per i suoi collages ( celeberrimo è "Just What Is It That Makes Today's Homes So Different, So Appealing?" in cui si vede un omone in "vesti adamitiche" e con una racchetta in mano e una donna discinta in un appartamento ampiamente arredato) sia stato uno dei responsabili di una scelta così asettica, che può rimandare tranquillamente ad altri versanti artistici non di suo appannaggio. Interessante aneddoto comunque per comprendere come molti artisti abbiano exploit differenti prima o poi, che li portano a deviare leggermente traiettoria rispetto al loro classico modus operandi (come Alberto Burri, ad esempio, artista decisamente non-concettuale, che però sfiorò tale linguaggio con i suoi cretti, tra i parti meno "passionali" e più freddi della sua produzione). In definitiva una copertina davvero ottima, pur nella sua semplicità, che racchiude in un involucro ermetico tanto contenuto di mirabile perfezione.

