SANTANA
ABRAXAS
1970 - Columbia Records

ANDREA ORTU
08/01/2017











recensione
Avevamo già accennato, sulla recensione dell'artwork di The Dark Side of the Moon, alla differenza che esiste tra quegli artisti che prestano la loro arte all'industria musicale, e i professionisti del settore specializzati in cover art. Nel caso dell'artwork di copertina di Abraxas, album-capolavoro di quel genio chitarristico che risponde al nome di Carlos Santana, abbiamo a che fare con una terza categoria: quella delle forme artistiche decontestualizzate, ovvero quelle opere d'arte "prese a prestito" da un contesto già definito, sia in termini culturali che stilistici, e poi piegate all'estetica concettuale del disco di turno. Detta così sembra una scelta artisticamente opinabile, eppure, in taluni casi, non solo è riuscita ad esprimere con efficacia un certo tipo di retorica, ma anche ad espandere l'immaginario collettivo verso determinate correnti filosofiche e relativi linguaggi. E' esattamente il caso della cover art di Abraxas. L'album, per quei pochi che non lo conoscessero, è uno di quelli che hanno fatto la storia del rock. Uscito nel 1970, Abraxas è forte com'è ovvio del talento innato del chitarrista messicano, ma anche di musicisti non solo preparatissimi, ma persino determinanti riguardo le influenze stilistiche dell'opera, che vanno dal rock alla salsa, dal jazz al blues, passando per una moltitudine di sonorità etniche tra le più disparate. L'aspetto multietnico e multiculturale dell'album e dei suoi musicisti è parte integrante del background concettuale dei Santana, e dunque anche dell'estetica della band. In un periodo storico come quello degli anni '60/'70, segnato dall'esigenza di superare ogni sorta di barriera storica, geografica e spirituale, le influenze culturali di cui i Santana erano fisiologicamente "portatori sani" erano state già decodificate - ed in buona parte anticipate - da numerose correnti artistiche contemporanee, non ultima: il surrealismo. Mati Klarwein, classe 1932, è stato un pittore surrealista tedesco di origini ebraiche, nonché figlio d'arte. Il padre fu infatti architetto di discreta fama, vicino agli ambienti espressionisti e Bauhaus, ma la sua famiglia - come migliaia di altre famiglie di origine ebraica - fu costretta alla fuga dall'insorgere del regime nazista. Rifugiatosi nell'allora Palestina Britannica, la cosiddetta "Mandatory Palestine", la famiglia di Mati visse per diversi anni in una situazione geopolitica quantomeno turbolenta, a contatto con una diversità umana abituata da millenni alla simbiosi, ma destinata di lì a poco alla più totale implosione. Alla nascita dello stato d'Israele, nel 1948, la famiglia del futuro pittore si spostò in Francia, apparentemente non intenzionata a prender parte alla fondazione della nuova Terra Promessa. Anzi: una decina d'anni dopo, per render chiari i propri sentimenti riguardo la situazione palestinese, Mati Klarwein cambiò il proprio nome in "Abdul"; una posizione che se oggi farebbe discutere, allora faceva addirittura scandalo. Klarwein studiò nelle migliori scuole ed accademie d'arte di Parigi, fino ad arrivare alla sua personale catarsi artistica ed umana tra il 1960 e il 1961. Dovettero essere anni davvero magici per un pittore poco più che ragazzo: l'incontro con la sua futura moglie, Sofia, e a New York quello con Jimi Hendrix e poi, l'anno successivo, con Salvador Dalì. Quest'ultimo per Mati fu come un "padre", artisticamente e spiritualmente parlando, ed il suo influsso nell'opera del pittore tedesco è difatti palpabile. Tuttavia, ai soggetti "salvadoriani" d'anatomia e composizione neo-classicista, di evidente matrice europea, Mati preferisce l'influsso colorito e multietnico delle sue personali esperienze di vita, unito ad un certo gusto per la decodifica della cosiddetta "cultura pop". Negli anni successivi, la sua fama - e la sua fetta di mercato - cresce esponenzialmente in più direzioni, tra cui quella del mercato discografico; sua è la cover art di Age of Anxiety (1966), di Leonard Bernstein, quella di Iron Man (1963), di Eric Dolphy, e quella di Demon's Dance (1968), di Jackie McLean. Poi, nel 1970, realizza il suo capolavoro per Bitches Brew, di Miles Davis, per il quale realizzerà anche l'artwork di copertina di Live-Evil. Ancora nel 1970 esce Abraxas, l'album simbolo dei Santana, e sulla copertina c'è proprio un dipinto di Mati Klarwein, una grande e raffinata esplosione cromatica conosciuta come "Annunciation" (l'Annunciazione). Se mi sono dilungato sulla biografia del pittore, è perché ritengo che le influenze umane ed artistiche che ne hanno segnato la vita siano essenziali per decodificarne l'opera, come avremo modo di constatare sviscerandone i simbolismi. Già, perché nonostante l'impronta stilistica dell'artista sia di matrice surrealista, sia da un punto di vista plastico che compositivo, la componente concettuale è piuttosto figlia della scuola simbolista, quasi del tutto priva di quella consapevole ricerca sull'onirico e sull'inconscio che aveva attraversato l'arte di Dalì e dei suoi contemporanei. Come accennato, Mati Klarwein aveva già "prestato la propria arte all'industria musicale", anzi, era noto soprattutto per questo; non è tuttavia il caso della cover art di Abraxas. L'Annunciazione risale infatti al 1961, ovvero il periodo immediatamente post-accademico del pittore, precedente di nove anni l'uscita del disco dei Santana. Il chitarrista e la sua band non hanno fatto altro che prendere il dipinto dell'artista, già consolidato nell'ambiente pittorico e più che emergente in quello discografico, ed adattarlo alla poetica del loro album. E la missione, lo dico subito, è pienamente riuscita. Il collegamento tra l'opera di Klarwein ed il titolo del disco è poco più che marginale, pur come vedremo non del tutto casuale: Abraxas era il nome del cavallo di Eolo, divinità del vento rielaborata dal cristianesimo in chiave demoniaca, mentre com'è prevedibile, l'Annunciazione rappresenta il ben noto messaggio dell'arcangelo Gabriele alla Vergine Maria. Solo che la Vergine Maria di Mati Klarwein, così come ogni altro soggetto della sua Annunciazione, è satura di simbolismi sociali e neo-pagani, in estrema antitesi con la tradizionale rappresentazione cristiana. Ciò che lega con maggiore intimità la poetica dei Santana con il dipinto di Mati Klarwein è piuttosto l'estetica, un sottotesto concettuale e filosofico capace di legare l'artista, un tedesco tutto sommato borghese e benestante, ai musicisti, messicani e statunitensi d'estrazione popolare. Quell'internazionalismo dai mille colori, pura celebrazione d'una diversità che diviene punto di forza di una compagine multietnica, si legge tanto nella musicalità e nella retorica dei Santana, quanto nel background immaginifico di Mati Klarwein. Vediamo dunque l'opera. Abraxas non riprende proprio per intero l'Annunciazione, data la differenza tra il taglio discografico dell'album ed il formato originale dell'opera, ma i soggetti principali ci sono comunque più o meno tutti. Il fulcro del dipinto si trova spostato a destra, ed è ovviamente quello che campeggia sul fronte di copertina: l'Arcangelo Gabriele che, indicando il cielo, annuncia a Maria la sua futura maternità divina. Solo che l'Arcangelo è rappresentato con fattezze femminili e provocanti, mentre la Madonna è nera, d'origine africana, il seno generoso in bella vista ed il sesso appena coperto da una colomba, perfettamente ravvisabile tra le gambe spudoratamente aperte della donna. Lo sfondo è un tripudio di particolari, di colori, di forme e di simboli, e nonostante la "paternità spirituale di Dalì", a farla da padrona è una sensibilità che affonda le sue radici nel periodo aureo di Gustav Klimt, nonché tra i motivi floreali e le spirali di colore di Vincent Van Gogh. Insomma, i riferimenti di Mati Klarwein sono numerosi, ragguardevoli e soprattutto diversi tra loro. Sul retro dell'opera, il gusto lezioso del dettaglio decorativo lascia spazio ad una rappresentazione di largo respiro: tra numerosi dettagli naturalistici, frutti e cibi d'ogni genere simboleggiano abbondanza e fertilità, mentre su ogni altra cosa si ergono i ballerini della tribù nigeriana degli Wodaabe, immortalati negli abiti caratteristici della loro celebre danza. Come usanza di queste genti, al termine del loro festoso rituale i ballerini più sensuali vengono scelti dalle donne della tribù, in perfetta "assonanza" con il simbolismo erotico e vitale del pittore tedesco. Tra gli Wodaabe rappresentati nell'opera spicca, in basso, l'autoritratto dell'artista stesso, cappello di paglia ed occhiali da sole, sorriso e barbetta curata - volutamente alieno alla natura mistica del quadro, quasi volesse ridere della sua stessa spiritualità. Infine sullo sfondo, tra vaste colline verdi ed una gigantesca luna arancione, si erge una struttura dalla connotazione incerta, a metà tra le architetture africane di Timbuctù e quelle asiatiche di Prambanan, in Indonesia, o del tempio di Meenakshi Amman a Madurai, in India. Tale misterica struttura è un ottimo esempio di come l'autore riesca ad offrire la visione di una grande, colorita macrocultura, frutto di una diversità figlia della medesima origine ancestrale. Ogni centimetro dell'Annunciazione nasconde qualche simbolo più o meno ricercato, più o meno rilevante ai fini di una "narrazione" concettuale necessariamente sfocata. Senza andare a perderci dentro tale narrazione, osserviamone quantomeno i simbolismi più evidenti. Innanzitutto, il tamburo. L'Arcangelo Gabriele cavalca infatti un grande tamburo "conga", esattamente come fosse un cavallo, lasciando assurgere lo strumento a simbolo fallico ma mantenendo, allo stesso tempo, il simbolismo intrinseco di qualsiasi tamburo: l'annunciazione - che sia di un esercito in marcia, di un grande generale di ritorno da una campagna o, perché no?, anche del figlio di Dio. Seguendo il dito dell'angelo, alzato verso il cielo come in innumerevoli rappresentazioni "canoniche", ci accorgeremo che esso indica un simbolo nel cielo, identificabile come la prima lettera dell'alfabeto ebraico e fenicio: aleph, l'alfa degli antichi greci. Come il suo primo posto nell'alfabeto sottintende, tale segno simboleggia l'Inizio: quello di una nuova epoca per l'umanità intera. ("Io sono l'Alfa e l'Omega", recita la Bibbia). Infine, su tutto il corpo dell'Arcangelo spicca blu su rosso un tatuaggio, simile a quelli con cui le spose indiane ornano i loro corpi prima del matrimonio. Tuttavia, scendendo sulla coscia di Gabriel, il soggetto del tatuaggio non è già una classica decorazione, ma una creatura a metà tra la fenice - simbolo di rinascita - ed un drago - la cui natura simbolica è decisamente più complessa: creatura annientatrice di vita in occidente, quando non incarnazione del Diavolo stesso, ed annunciatrice di bontà, custode dei tesori e portatrice di conoscenza in Oriente. Tutte qualità, queste ultime, peraltro assimilabili alle divinità luciferine della tradizione greco-romana, assurte a maligne manifestazioni di Satana con l'avvento del cristianesimo. Ho il sospetto che tali caratteristiche, all'apparenza contrastanti, convivano in armonia nell'eclettico immaginario di Mati Klarwein. Vi sono poi una miriade di altri dettagli, alcuni nascosti, altri in evidenza: spazi architettonici dalla collocazione metafisica, un uovo da cui sorgono intricate esplosioni floreali, simbolo di fertilità e vita; oppure quel grande elefante in alto a destra, semi-nascosto da una massiccia decorazione dorata. E naturalmente quella colomba adagiata fra le gambe della Vergine, pace per l'umanità tutta che passa per la pace dei sensi. In generale, per concludere questa lunga ma necessaria disamina sull'opera, il pittore attua una profonda rilettura dei canoni culturali ed estetici occidentali - quelli con cui egli è cresciuto - stravolgendone provocatoriamente il significato popolare, ma recuperandone, al tempo stesso, quell'ambiguità pagana divenuta mero contrasto tra bene e male in seno all'egemonia della Santa Sede. Ora, per attuare il suo stravolgimento, Klarwein ha utilizzato il suo background multiculturale - in parte acquisito sul campo, ed in parte segmento di una filosofia di vita ben definita, figlia dei movimenti ideologici degli anni '60. Dite che sto parlando del movimento Hippie? In certa misura sì, ma come non mi stancherò mai di ripetere scrivendo di rock, trattasi non della caricatura cui l'influsso dei media e gli abusi degli stessi hippies ci hanno abituati, ma di un intricato e sfaccettato insieme di sentimenti ed idee; quella filosofia, per capirci, che ha animato la riscoperta di antiche mitologie pagane, con tutto il suo derivativo carico tolkieniano; quella filosofia, ancora, che ha dato vita ad una controcultura antiborghese cui dobbiamo Woodstock, e gran parte del rock cosiddetto "classico". Una filosofia, per concludere, intimamente legata ai movimenti neopagani e libertari alla base dell'hard rock tutto, dai Rolling Stones fino alle più oscure derive contemporanee della musica metal. Gli ambienti figurativi, ad ogni modo, sperimentarono determinate derive con netto anticipo, rifacendosi all'anticonformismo decadentista, piuttosto che a quello della neonata pop culture angloamericana. Per quel che riguarda i Santana, il discorso è invece un po' più specifico. Oltre ad aver certamente interpretato i movimenti culturali di cui si è parlato, la band del chitarrista ha dato vita ad un'estetica tutta sua, necessariamente focalizzata su quei sapori latino-rock che, all'epoca, erano dei Santana e di nessun altro. Il gruppo di Carlos ha inoltre portato all'attenzione dei media, e quindi della borghesia bianca, una controcultura pacifica e passionale, colorita e multietnica, incentrata com'è ovvio su sonorità principalmente latine, ma di fatto figlie di quegli stessi movimenti che ispirarono l'Annunciazione di Mati Klarwein. Ed ecco spiegato il motivo - e l'importanza - della scelta de l’Annunciazione, come cover art di Abraxas, dei suoi simbolismi neopagani e delle sue provocazioni, con quei conga (peraltro presenti nell'album) e quell'amabile predilezione per i colori caldi del sud del mondo. Un sud che, come la storia ci insegna, è stato la culla ancestrale dell'umanità intera.

