PINK FLOYD

THE DARK SIDE OF THE MOON

1973 - Harvest

A CURA DI
ANDREA ORTU
22/12/2016
TEMPO DI LETTURA:
9,5

recensione

The Dark Side of the Moon, dei Pink Floyd, è uno di quegli album di cui è stato detto praticamente tutto. Ma tutto, tutto. Tecnicamente, parliamo del terzo album più venduto della storia, ma praticamente abbiamo a che fare con una delle opere più influenti della cultura contemporanea, con tutta la letteratura annessa che questo comporta. Fortunatamente, noi oggi non parliamo dell'opera in sé - della sua musica, dei suoi protagonisti, delle strumentazioni utilizzate o delle avveniristiche soluzioni artistiche in essa presenti - ma, piuttosto, ci concediamo il lusso di andare ad interpretare un aspetto dell'opera un po' meno ingombrante, se vogliamo anche più "misterioso": l'artwork di copertina. Ovviamente, anche l'immagine comunemente associata all'ottavo album dei Pink Floyd, datato 1973, è piuttosto famosa, se non addirittura radicata nell'immaginario collettivo. Ma quel è il suo significato? Che tipo di sintesi racchiude il celeberrimo prisma triangolare, e qual è stato il percorso artistico di questo particolare linguaggio immaginifico? Cominciamo da coloro i quali l'opera l'hanno concepita e disegnata: Storm Thorgerson, del mitico studio Hipgnosis, e George Hardie, noto ad esempio per la cover art del primo album dei Led Zeppelin. Riassumendo le dinamiche, il primo ebbe le idee, ed il secondo le mise su carta. Innanzitutto, una considerazione: c'è una certa differenza tra quegli artisti figurativi che prestano la loro arte alla musica, come possono essere stati Roger Dean, Hans Giger o Peter Blake, e gli illustratori specializzati, com'era il caso dei ragazzi dello studio Hipgnosis. I primi tendono a fare dei dischi e delle loro tematiche mero pretesto, utilizzandone le basi concettuali allo scopo di creare qualcosa di personale, da cui risalti con fermezza il loro personalissimo stile. Il risultato sono lavori, anche eccellenti, in cui l'eventuale soggetto dell'album risulta di fatto in un'interpretazione letterale e figurativa, mentre ciò che risalta è il linguaggio unico e personale dell'artista, fisiologicamente slegato dalla poetica della band di turno. I secondi, gli illustratori specializzati in cover art quali erano Hardie e Thorgerson, tendono viceversa ad interpretare analiticamente il soggetto e lo spirito di un'opera, ricercando ogni qualvolta il linguaggio più adatto ad esprimerne l'essenza. Ovviamente le due "scuole di pensiero" hanno entrambe i loro alti e bassi: la prima mette in campo risultati più intriganti dal punto di vista prettamente artistico-figurativo, dando però meno risalto agli eventuali richiami concettuali presenti nella musica; la seconda è necessariamente derivativa, pragmatica nel suo accostamento all'oggetto musicale, ma proprio per questo in grado di esprimerne con efficacia sfumature e personalità. L'artwork sulla copertina di The Dark Side of the Moon è perfettamente emblematico di quest'ultima scuola di pensiero, e come tale riesce a descrivere con stupefacente capacità di sintesi un'opera considerata - tanto dalla critica che dall'utenza - come un capolavoro del rock tutto. Come molti già sapranno, l'ottavo album dei Pink Floyd era solo l'ennesimo frutto di una collaborazione, quella tra la band e lo studio Hipgnosis, che durava già da molti anni, e con risultati controversi. Fino a quel momento, Thorgerson e company avevano avuto piena libertà d'azione grazie al contratto stipulato con la band, legame che gli aveva permesso di realizzare copertine ironiche e irriverenti, discutibilmente sopra le righe. Ma, alla vigilia dell'uscita di The Dark Side of the Moon, i Pink Floyd chiesero esplicitamente all'Hipgnosis un artwork che fosse elegante, di maggior classe - insomma, un artwork che si prendesse sul serio. Furono presentate almeno sette bozze di copertina, tra cui quella leggendaria con Silver Surfer, ma quando fu il suo turno di esser presa in esame fu scelta immediatamente, all'unanimità e senza discussioni, la cover art che noi tutti conosciamo bene, quella che col tempo sarebbe divenuta quasi il simbolo della band di Roger Waters. Il disegno di Hardie si presenta piuttosto semplice: un prisma triangolare, colpito da un raggio di luce bianca, riflette sei dei sette colori caratteristici dello spettro solare: rosso, arancione, giallo, verde, blu, e viola. Insomma, i colori dell'arcobaleno escluso l'indaco. Il cono multicolore prosegue sul retro dell'album, dove torna ad imbattersi su un prisma triangolare posto al contrario rispetto al primo, irraggiando nuovamente il fascio di luce bianca che, prevedibilmente, va a divenire un tutt'uno con quello sul fronte di copertina. Un'idea che, tra le altre cose, teneva pragmaticamente conto della comodità di stoccaggio nei negozi. L'interno della copertina è letteralmente diviso in due dal fascio policromatico, suddivisione ideale per i testi, posti in basso, e l'elenco delle tracce con annessi credits, sistemati in alto. Sempre sul gatefold di copertina, la linea verde del nostro "arcobaleno" diviene la rappresentazione di un elettrocardiogramma, idea suggerita dallo stesso Waters ed in linea con i contenuti del disco. Volendo dare una definizione al lavoro di Thorgerson ed Hardie, potremmo definire l'opera come una "sintesi simbolista dei Pink Floyd", ovvero una rappresentazione stilizzata di ciò che nell'immaginario dell'artista era la band di Waters e co. Apparentemente, il buon Storm era interessato a suggerire con una sola, basilare immagine l'essenza scenica della band, piuttosto che tentare di sintetizzarne la retorica. Sono infatti almeno due, i fattori che hanno ispirato il famoso prisma triangolare. Il primo risiede nell'attitudine dello stesso Thorgerson per la fotografia, le cui meccaniche sono necessariamente legate all'azione della luce; il secondo, invece, è rappresentato dai Pink Floyd e dai loro spettacoli dal vivo, allora come oggi caratterizzati da imponenti show foto-cromatici, in cui all'effettistica teatrale si aggiunge un gusto artistico per la luce ed i suoi movimenti. L'intuizione di Thorgerson si basava, naturalmente, su solide basi concettuali già belle che mature da diversi decenni, trovando la sua genialità proprio nel riassunto concettuale che implicitamente esprime. Cercherò di essere più chiaro: gli spettacoli di luce che oggi diamo per scontati ad ogni evento musicale di una certa dimensione, di cui i Pink Floyd sono stati precursori (pionieri veri esclusi), trovano le loro nobili origini nella lunga, sofferta ricerca tutta novecentesca di un superamento dell'arte figurativa tradizionale, esigenza innescata a suo tempo dall'invenzione e diffusione della fotografia e, in seguito, diramatasi verso una moltitudine di soluzioni stilistiche diverse, conosciute oggi come impressionismo, espressionismo, cubismo ed astrattismo, oltre certamente una gran varietà di sottogeneri. Come Leonardo, molti di questi pittori facevano uso del mezzo artistico per dare spessore ad una vera e propria "ricerca scientifica", riguardante soprattutto l'impressione dell'immagine sull'occhio umano o, ancora più intimamente, riguardante la differenza tra realtà oggettiva e realtà individuale, fino al superamento stesso dell'arte intesa come "rappresentazione" tipico di altre scuole di pensiero. La diffusione della luce elettrica, grossomodo parallela a quella della fotografia, ebbe naturalmente ruolo attivo in questo immane stravolgimento delle regole e del pensiero, e dal momento che il tema meriterebbe un articolo a parte, mi limiterò dunque solo a citare le origini della cosiddetta "light painting". I primi esperimenti in tal senso risalgono alla fine del diciannovesimo secolo, e vedono come protagonisti scienziati e fotografi. Sono primi passi privi d'intento artistico, ma già profondamente legati a quella basilare rappresentazione ad opera di Hardie. La svolta sul versante artistico arrivò nel 1935 per mano del dadaista statunitense Man Ray, per raggiungere popolarità globale nel decennio successivo grazie all'interessamento di un "peso massimo" del settore: Pablo Picasso. Col passare dei decenni la "pittura di luce" avrebbe conosciuto diffusione e declino, divenendo nel tempo cosa altra, finendo per essere influenzata ed arricchita dall'uso creativo dell'elettricità nel marketing e nello spettacolo, fino ad arrivare, finalmente, al mondo del rock. Ed ai Pink Floyd. Questo, vi assicuro in sintesi, è il percorso artistico che l'immaginario di Thorgerson è riuscito non solo a cogliere, ma a sintetizzare con estrema precisione, rapportandolo all'ultimo e più recente stadio del suo cammino: il mondo del pop, con l'enorme influenza a livello di immaginario collettivo che questo comporta. A prescindere dalla ricercatezza artistica e concettuale dietro The Dark Side of the Moon, infatti, l'opera della band ha avuto un successo ed una diffusione tale da farla rientrare a pieno titolo nell'ottica della fruizione di massa, destino che ne ha esposto l’anima alle critiche, certo, ma che ne ha anche sancito la consacrazione ad aeternum. Infine, il triangolo: figura geometrica legata ad una metafisica trascendentale che rappresenta la perfezione, fisica e spirituale, e che per Thorgerson simboleggia pensiero ed ambizione, caratteristiche che l’artistica giudica proprie dei testi di Waters. Quanto al dettaglio dell'elettrocardiogramma, di indubbio valore evocativo, esso è completamente scollegato dall'idea originale dell'artista, essendo come già accennato farina del sacco di Waters. L'album dei Pink Floyd non a caso si apre e si chiude al suono di un battito cardiaco, come se alla base della retorica dell'album, profondamente sociale ed esistenziale, vi fosse semplicemente l'essere umano, col suo regolare soffio vitale scandito da battiti che appartengono al singolo individuo, ai musicisti della band, all'umanità intera. Possiamo dunque concludere osservando come l'opera di Thorgerson & Hardie sintetizzi insieme l'essenza dell'album e quella dei Pink Floyd, imprimendo immediatamente nell'osservatore l'idea di una band tormentata ma luminosa, come luminosi erano i suoi spettacoli dal vivo, e come ci riesca grazie ad una pulizia formale rispettosa degli intenti dell’opera, attraverso la quale riesce ad evocare un simbolismo d’incredibile potenziale immaginifico. Come affermò lo stesso Thorgerson un paio d’anni prima della sua morte, “…the prism belonged to the Floyd” – Il prisma apparteneva ai Floyd.