JOY DIVISION
Unknown Pleasures
1979 - Factory Records

ANDREA ORTU
29/09/2017











recensione
1934: Nell'oscuro marasma della seconda Grande Depressione, mentre l'Europa vede l'ascesa di movimenti reazionari e l'America vive la fine del proibizionismo, gli astronomi Walter Baade e Fritz Zwicky teorizzano per la prima volta l'esistenza delle stelle di neutroni, un anno dopo la scoperta del neutrone da parte di Sir James Chadwick. Tuttavia, non esistono ancora gli strumenti e le conoscenze necessarie a dimostrare la veridicità di tali teorie. Trentatré anni dopo, l'astrofisico Franco Pacini dedurrà la possibilità di osservare una stella di neutroni attraverso le onde emesse dal suo campo magnetico, rimanendo però relativamente inascoltato.
1967, il 28 novembre: In tutto il mondo impazzano i Beatles e gli Who. la psichedelia la fa da padrona e la guerra fredda fa sempre più paura, mentre la corsa verso la Luna è vicina alla sua fase culminante. Ai margini di questo vortice multiforme, Jocelyn Bell Burnell e Antony Hewish, due astronomi del Mullard Radio Astronomy Observatory di Cambridge, fanno una scoperta che cambierà radicalmente l'approccio all'astronomia, allo studio della materia e, in generale, alla fisica tutta. I due, forti della più avanzata tecnologia esistente in quegli anni, realizzata in larga parte dallo stesso Hewish, tentano di reperire nuovo materiale sulla "scintillazione delle quasar", incappando però in un segnale del tutto sconosciuto, e cosa più strana: regolare. In virtù di tale caratteristica, si credette inizialmente di aver captato un messaggio alieno di qualche tipo, o quantomeno ci si scherzò sopra, ragion per cui il fenomeno venne classificato come "LGM-1", ovvero "little green man"; tuttavia, alla fine fu chiaro che la realtà era ben diversa, forse meno romantica, ma certo non meno interessante: l'Interplanetary Scintillation Array, capostipite di tutti i moderni radiotelescopi, aveva appena captato il segnale radio di un nuovo tipo di corpo celeste: la stella di neutroni, oggi comunemente nota come pulsar. Grazie a questa scoperta è stato possibile confermare l'esistenza di stati della materia fino ad allora solamente teorizzati, e in virtù della natura di tali stelle, nonché della tecnologia del radiotelescopio, si rese possibile la scoperta del primo pianeta extrasolare. Un grande passo, per l'umanità.
1970: all'Osservatorio di Arecibo, a Puerto Rico, uno studente della Cornell University decide di tradurre in immagini la scoperta di Hewish e Burnell, chiamata ora, ben più prosaicamente, "PSR B1919+21". Lo so, lo so, anche a me piaceva di più la storia dell'omino verde, ma che volete farci. L'immagine, realizzata al computer, è parte di una tesi intitolata "Radio observations of the pulse profiles and dispersion measures of twelve pulsars", e la firma è di uno scienziato in rapida ascesa: Harold Craft. Non aspettatevi meravigliose e sgargianti rappresentazioni cosmiche: quello disegnato da Harold, infatti, è un semplice grafico comparato, realizzato attraverso le onde radio captate all'osservatorio. Era, tra le altre cose, uno dei primissimi esempi di digital data visualization, una branca all'epoca ancora pionieristica. Harold Craft, oggi vicepresidente all'amministrazione della Cornell University, non poteva assolutamente immaginare che i suoi studi sarebbero divenuti parte dell'immaginario collettivo mondiale.
1979: Jon Savage, critico musicale per la celebre rivista Melody Maker, scrive il suo articolo a proposito di una nuova band; non uno degli innumerevoli gruppi punk di quel periodo, sebbene sia da quel contesto che arrivi, ma quattro ragazzini apparentemente in grado di ridefinire il concetto stesso di sound: i Joy Division, formati da Ian Curtis, Bernard Sumner, Peter Hook e Stephen Morris. Di loro, Savage scriveva che in un finale di millennio in cui la nostalgia pare farla da padrona, i Joy Division "tracciano una rotta sul presente con un occhio verso il futuro", aggiungendo che "forse, non si potrebbe chiedere nulla di più". Sembrano parole scritte l'altro ieri. Diversi anni dopo, alla luce del cosiddetto senno di poi, il giornalista descriverà l'album di debutto della band come una dichiarazione di estetica e cultura Northern Gothic: romantico, claustrofobico, e pregno di sensi di colpa. Oggi sono ancora in tanti, a conoscere ed apprezzare la breve ma determinante parabola dei Joy Division, una band che ha saputo ridefinire il rock, uscire da schemi già oltre gli schemi - quelli del punk - e reinventare l'oscurità del gotico nel post-modernismo della nostra era, aprendo le porte a molto di ciò che sarebbero stati gli anni '80, nel bene e nel male. Sì, tanti ancora ne amano la musica e la poetica, ma tutti conoscono la copertina del loro primo album; tutti, volenti o nolenti.
1979, diversi mesi prima: un giovane graphic designer, fresco di Politecnico ma dalle idee già notevolmente chiare, dà inizio alla sua collaborazione con la neonata Factory Records, l'etichetta discografica creata nel 1978 da Tony Wilson e Alan Erasmus. Il suo nome è Peter Saville, ha solo ventiquattro anni, e sebbene l'intraprendenza sia decisamente il suo forte, il ragazzo non può minimamente immaginare di essere a un passo dall'opera che gli svolterà la carriera. Tony Wilson, neanche trentenne ma già stranoto presentatore TV, grazie alla sua fama non fatica molto a trovare le sue prime band, e così arrivano alla label nomi conosciuti e meno conosciuti, tra cui The Durutti Column, Cabaret Voltaire e, naturalmente, i Joy Division. Questo gruppo di giovanissimi veniva dal punk e aveva già autoprodotto un EP, "An Ideal for Living", con il quale aveva attirato l'attenzione del ventinovenne showman televisivo, ma difficilmente sia Wilson, sia gli stessi ragazzi della band, avrebbero potuto predire che il loro lavoro avrebbe fatto la storia della musica contemporanea. Se lo avessero saputo, forse avrebbero preferito affidare la parte estetica della faccenda a qualche professionista di comprovato spessore, qualcuno la cui sola firma equivaleva ad un valore aggiunto per l'intera produzione. E avrebbero sbagliato di grosso. Fortunatamente, i Joy Division avevano ancora tutto da dimostrare, a loro stessi e alla musica, e fu così che la cover art dell'album di debutto venne affidata a quel ragazzo intraprendente e di larghe vedute: Peter Saville, la cui specialità era - e si sarebbe decisamente riconfermata - la riappropriazione delle immagini, ovvero quell'attitudine che fu di Duchamp di prendere un oggetto, o un immagine, e di cambiarne radicalmente contesto, e con il contesto il suo significante. Era ancora la gloriosa epoca dei vinili e, per artisti della razza di Saville, incarichi come quello commissionato dalla Factory Records potevano rappresentare l'inizio del Sogno.
Manchester, aprile del 1979: i Joy Division hanno appena concluso la registrazione del loro primo album, e l'unica cosa che manca è una copertina che ne sintetizzi l'essenza. Peter Saville è concentrato su diversi lavori, poster e copertine per quelle band, tutte emergenti, della neonata etichetta di Wilson. Il graphic designer mette la propria personalità sul suo lavoro, ed infatti le sue opere sono esattamente come lui, come i suoi vestiti, i suoi atteggiamenti: fashion, sexy e maledettamente cool, ma non nell'accezione frivola che daremmo in tutta fretta a tali aggettivi. I suoi principali riferimenti contemporanei sono le grafiche dei Roxy Music, e - in generale - tutta l'estetica della band di Brian Ferry, mentre le basi vere e proprie sono rappresentate dall'opera di Herbert Spencer, "Pioneers of Modern Typography", praticamente la Bibbia di un'intera generazione di grafici. Il lavoro era parecchio e il tempo stringeva, ma abbandonarsi alla fretta e alla mediocrità non era nello stile di Saville, che racconta: non c'era altro da fare se non quello che sentivo di voler fare. Facevo copertine di dischi come se fossero state per l'eternità... non puoi fare graphic design in quella maniera, non funziona. Eppure, non avrei potuto fare nessuna copertina per i Joy Division o per i New Order, se avessi avuto scadenze. Un atteggiamento ben più caratteristico di chi lavora con l'arte in senso stretto, rispetto a chi deve piegare la creatività ad esigenze prettamente commerciali, ma è proprio dalle restrizioni che tanto spesso nasce il genio. Il giovane professionista godeva di piena fiducia e totale libertà, ma fu la stessa band a regalargli l'idea vincente, quella che l'avrebbe reso il più celebre nel suo campo. Curstis e compagni misero Saville di fronte a un grosso libro: la Cambridge Encyclopaedia of Astronomy, summa di tutto ciò che l'astronomia era stata fino ad allora, e da quella, di comune accordo, fu scelta una foto destinata a divenire la cover art più famosa di sempre, paragonabile solo - forse - ad un caposaldo come "Abbey Road". L'immagine scelta era proprio quella creata nove anni prima da Harold Craft, ossia la fredda, schematica rappresentazione grafica di cento impulsi consecutivi provenienti dalla prima pulsar mai scoperta, quella che dodici anni prima, a Cambridge, gli astronomi avevano ribattezzato "Little Green Man", l'omino verde che aveva cambiato le carte in tavola alla scienza tutta. Non vi furono grosse discussioni, nessun ripensamento: come una sorta di presagio sancito da un tacito accordo, l'"Alieno" scoperto da Burnell ed Hewish divenne ufficialmente l'immagine di copertina per Unknown Pleasures, il primo album dei Joy Division.
1979, il 15 giugno: L'album di debutto della band di Curtis e compagni esce in sole diecimila copie, registrando un tasso di vendite abbastanza lento. Dopotutto, la Factory Records è una label indipendente. Ad ogni modo la band si fa notare, e l'album inizia a girare negli ambienti underground britannici, complici la singolare personalità del frontman e la misteriosa, affascinante copertina del disco. La cover art si presenta uguale ma diversa, rispetto all'immagine creata da Harold Craft anni prima: gli aspetti prettamente tipografici sono tutti compressi sul retro, mentre, a colori invertiti, gli impulsi della stella di neutroni appaiono ora bianco su nero, e come se non bastasse la raffigurazione è rimpicciolita, miniaturizzata, immersa nell'oscurità di una spessa cornice nera, profonda come lo spazio cosmico. All'interno dell'album, un poster alquanto inquietante tratto da un'opera di Ralph Gibson. La critica, nel frattempo, promuove l'album praticamente all'unanimità, reputandolo rivoluzionario. Lenti ma inesorabili, i deboli impulsi della stella chiamata Joy Division iniziano ad essere captati da sempre più persone.
1979, il 7 ottobre: esce il primo singolo dei Joy Division, un pezzo oggi considerato imprescindibile da qualsiasi amante del post-punk, ovvero "Trasmission". La canzone è spinta da un media fino a quel momento in ascesa ma poco determinante, destinato a cambiare la percezione stessa della musica dal decennio successivo in poi: la televisione. La band inglese si esibisce allo show televisivo di Tony Wilson e alla BBC, mostrando nonostante tutto di avere eccellenti santi in paradiso, e grazie alla forza di poetica, musica e personalità, la fama dei Joy Division inizia ad andare oltre i ristretti limiti dell'underground, acquisendo popolarità e risollevando le vendite di Unknown Pleasures, le cui copie invendute stazionavano alla sede della Factory Records. È un momento decisivo e catartico, ma il buio siderale che avvolge il gruppo è impermeabile a qualsiasi forma di ottimismo.
1980, il 18 maggio: Ian Curtis muore suicida a ventitré anni, e i Joy Division si sciolgono immediatamente. Il ragazzo aveva cominciato a soffrire di una gravissima forma di epilessia alla fine del '78, e le sue condizioni, unite a una personalità sensibile e agli inevitabili problemi con la moglie, l'avevano portato a bere e a drogarsi con inquietante frequenza, immerso in una nebbia semi-cosciente indotta da sostanze e malattia, in condizioni simili alla depressione ma, forse, perfino peggiori. Dirlo sembra brutto, irrispettoso, ma come tanto spesso accade quando si parla di arte, fu la morte la chiave del Successo, quello con la "s" maiuscola. I Joy Division erano forti e la loro musica orecchiabile, per quanto funerea, ma erano davvero troppo avanti per i canoni dell'epoca, e il loro stile era davvero troppo strano, perché potessero farsi largo in un marasma che iniziava a puzzare di già visto e di derivativo, sorretto da un pubblico sempre più assuefatto a nostalgie e rivisitazioni. Il tragico epilogo del cantante fu il seme alla base della costruzione del personaggio, e la costruzione del personaggio quello per una graduale riscoperta del gruppo. L'uscita postuma del secondo album, "Closer", due mesi esatti dopo la morte di Ian Curtis, rappresenterà la chiave di volta definitiva: da allora in avanti l'ascesa dei Joy Division sarà inarrestabile, e il nome della band assurgerà a leggenda.
201#, tempo presente: giro per un qualsiasi locale di Roma, la città in cui vivo, e immancabilmente trovo qualcuno con la t-shirt dei Joy Division; sulla maglietta, normalmente nera come lo sfondo di Unknown Pleasures, l'immagine scelta quasi quarant'anni prima da Peter Saville, a imperitura memoria della prima stella pulsar mai scoperta da uomo. Quarant'anni. Eppure, se giro vicino a una scuola superiore, scorgo sempre un ragazzo o due con la medesima maglietta, o col cappellino, o la felpa, o la spilla sullo zaino. Entrando in una palestra potrei trovare chi quell'immagine l'ha tatuata sulla pelle, e nelle case della gente la vedo su tazze, pantofole, gadget d'ogni genere. La cosa più incredibile, rispetto a quanto accade per tante altre band di fama mondiale, è che molte di quelle persone che usano l'immagine di Unknown Pleasures, i Joy Division nemmeno li conoscono. Chiaro, tanti ragazzini hanno ostentato, e tutt'ora ostentano, magliette dei Metallica o dei Led Zeppelin senza conoscerne davvero l'opera, ma quasi sempre avranno sentito almeno una volta Fade to Black o Stairway to Heaven, e comunque, in ogni caso, la diffusione dell'immagine simbolo dei Joy Division non è nemmeno paragonabile a quella di qualsiasi altra band. Nessun'altra cover art - né quella di "Sgt. Pepper" o quella di "Master of Puppets", quella di "Led Zeppelin IV" o quella di "Thriller" - può eguagliare la diffusione a livello popolare della copertina di Unknown Pleasures; forse, solo quella del già citato "Abbey Road"... e parliamo dei Beatles, cavolo. La fama della band di Ian Curtis era decollata, dopo la morte del cantante e l'uscita di Closer, assicurando al gruppo un posto d'onore nella storia della musica contemporanea, ma questo non basta a giustificare il successo di una singola, semplicissima immagine. Ma allora perché? Personalmente, credo per due motivi. Il primo è il fascino intrinseco della raffigurazione in esame, così enigmatica, simile a un elettrocardiogramma o una catena montuosa, suadente, nel suo salire e scendere frenetico, ma al tempo stesso ostile e spigolosa. All'epoca, la sua forma misteriosa si adattava perfettamente al sound alieno dei Joy Division; la sua nera profondità alla voce bassa, quasi ultraterrena di Ian Curtis, mentre la semplicità compositiva tracciata da Saville sembrava la sintesi grafica di un sound minimale, grezzo, essenziale. L'infinità del cosmo ridotta alla freddezza di un grafico sembrava, e tutt'ora sembra, emblema di una post-modernità sotto vetro, sintetica, che fa dell'artificio e dello schema il punto di partenza di una nuova estetica, e con essa, di una nuova umanità. Unknown Pleasures non seppe leggere solamente una generazione, ma un'epoca, ed è questa la sua grandezza. Ma il secondo motivo, per chi scrive, è il più importante, e riguarda l'essenza. Per i maestri spadai giapponesi l'essenza di una spada era determinante: c'era una differenza enorme tra un'arma pensata per adornare la casa d'un nobile, e una forgiata per uccidere. Allo stesso modo, nell'universo di segni che chiamiamo arte, c'è una differenza sostanziale tra ciò che viene concepito a immediato uso e consumo, e ciò che invece esiste per esistere, divenendo eredità e memoria collettiva. Non ha importanza che si tratti di lavoro su commissione; la Cappella Sistina, era un lavoro su commissione, eppure da quelle immagini sacre traspare limpido tutto lo strazio in animo al suo autore, tutte le contraddizioni dell'epoca di Michelangelo. Allo stesso modo, Peter Saville non pensò la copertina di Unknown Pleasure come semplice lavoro grafico, come un qualcosa che rendesse elegante e appetibile un oggetto di consumo; lo pensò "per l'eternità". Così disse, e così è stato. Da quella semplice serie di linee bianche su sfondo nero traspare l'eleganza e l'edonistica vanità del suo autore, la limpida oscurità dei Joy Division, lo spirito di un'era che tentava di dare forma alla sua nuova dimensione, e infine, la nera profondità di un cantante ancora capace di urlare la sua rabbia e il suo dolore, prima di sprofondare in quell'inno funebre che fu "Closer". La copertina di Unknown Pleasures non è un capolavoro d'arte grafica o discografica. È un capolavoro e basta, e come tale è stato celebrato, ricordato, e infine assorbito. È parte di noi come i dipinti rupestri e la Gioconda, come la Tour Eiffel o il Colosseo, del tutto a prescindere dalla storia che c'è dietro o i suoi protagonisti. È parte dell'umanità. Oggi, l'immagine simbolo dei Joy Division rivive su internet, tra i banner e le pubblicità, sui social e sui blog, impermeabile ai cambiamenti ed alla loro forza distruttrice, anzi, più forte, rigenerato, amato dai nostalgici e sbandierato dagli inconsapevoli, simbolo - una volta ancora - di una post-era alla ricerca della sua introvabile dimensione.
Dopo quel terribile maggio del 1980: un aspetto affascinante, della breve storia dei Joy Division, risiede nella sua peculiare identità: giovanissima e britannica. Britannici erano gli scienziati che scoprirono la prima pulsar, britannica era la Factory Records e la stessa band, e naturalmente britannico era anche Peter Saville, allora neanche venticinquenne. I ragazzi del gruppo erano ancora più giovani, e perfino Tony Wilson, proprietario dell'etichetta e affermato presentatore, non arrivava a trent'anni. Artisti affermati e avanti negli anni possono sfornare capolavori assoluti, penso David Bowie l'abbia ampiamente dimostrato col suo "Blackstar", ma forse solo dei ragazzi potevano concepire un'opera come Unknown Pleasures, arrivando per primi senza paura - anzi, senza nemmeno pensarci - al nucleo di un'epoca nuova e ricca di contraddizioni, cogliendone l'essenza più profonda. Dalla morte di Ian Curtis in poi, ogni azione legata a coloro che avevano lavorato con lui divenne degna dei migliori riflettori. I membri superstiti dei Joy Division fondarono i New Order, una band che riprenderà l'estetica e le sonorità del gruppo di Curtis andando poi ancora oltre, immischiandosi con coraggio nella new wave, nel rock, nell'elettronica, senza tuttavia arrivare a creare qualcosa che potesse davvero imprimersi nell'immaginario collettivo. Nondimeno, i New Order influenzeranno innumerevoli artisti pop, big beat, tecno, ambient e rock, dando un enorme contributo alla direzione della musica contemporanea. Peter Saville, dal canto suo, è diventato un guru del settore, autore di innumerevoli opere grafiche e mecenate di tanti ragazzi con la sua stessa passione. Dopo aver lavorato ad ogni singola pubblicazione dei Joy Division, Saville si spostò a Londra e poi a Los Angeles, ottenendo l'incarico di direttore artistico della Dindisc, succursale della Virgin, ed arrivando a lavorare per artisti del calibro di King Crimson, Wham!, Duran Duran e Peter Gabriel, oltre agli stessi New Order, per i quali ha curato le grafiche fino all'ultimo disco, uscito nel 2015; una collaborazione ultratrentennale che riscalda il cuore, e che traccia una linea diretta fra noi e i Joy Division. Negli anni, questo graphic designer di Manchester ha migliorato il suo stile fino a portarlo alla perfezione, e sebbene nemmeno lui sia riuscito a creare nuovamente un'opera che riuscisse a imprimersi nella memoria collettiva, da ogni suo lavoro traspare la stessa essenza dell'immagine di copertina di Unknown Pleasures: lo slancio verso l'eternità.

