DEEP PURPLE
Deep Purple in Rock
1970 - Harvest Records

ANDREA ORTU
25/11/2017











recensione
Noi contemporanei viviamo in un'epoca curiosa, dal punto di vista della fruizione delle immagini: insieme esaltante e noiosa, ricca di stimoli visivi eppure, paradossalmente, relativamente povera di reale ispirazione e di genuino stupore. Il motivo è univoco: l'ormai enorme, smodata quantità d'icone e riferimenti visivi. Ci piacciono tante cose ma, banalmente, nessuna ci colpisce davvero, nulla ci sconvolge più di tanto. Oggi, guardando a una cover art come quella di Deep Purple in Rock, nessuno resterebbe più di tanto colpito dall'idea alla base della grafica, fondamentalmente goliardica e dissacrante, poiché abituato a una miriade di format similari o del tutto identici. In buona parte, l'idea era già derivativa nel '69, ma l'impatto di un album dei Deep Purple sul grande pubblico era - ed è - cosa ben più ampia di quasi tutto il resto, capace da solo di modificare la percezione dell'immaginario collettivo. Quello che oggi più di ieri viene dimenticato, quando osserviamo frettolosamente le immagini passare sul nostro schermo, è che per arrivare a una copertina del genere ci sono voluti secoli e secoli di Storia dell'Arte. Prima di fare un lungo passo indietro, vediamo più precisamente di cosa stiamo parlando. L'opera, per gli affezionati semplicemente "In Rock", è il quarto album in studio dei Deep Purple, edito il 3 giugno del 1970 con la formazione più classica della band inglese: Ian Gillan, Ritchie Blackmore, Jon Lord, Ian Paice e Roger Glover. Non è un disco qualsiasi, ma quello di brani storici come "Speed King" e, soprattutto, "Child in Time", l'unica canzone capace di contendersi il titolo di "più grande inno rock di sempre" con "Stairway to Heaven". L'album, osannato dalla critica e adorato da decine di milioni di persone, è un assoluto caposaldo del rock, nonché un gradino essenziale verso le future sonorità heavy del palcoscenico mondiale. La copertina, figlia di un'epoca in cui l'elemento grafico aveva uno spessore davvero notevole sulla percezione di un prodotto fisico, considerate anche le dimensioni e il valore dei vinili, è opera della design agency londinese Nesbit & Froome, ma l'ideatore del concetto alla base è lo stesso manager dei Deep Purple: Tony Edwards. L'artwork ritrae uno scorcio del Mount Rushmore National Memorial, l'immane scultura ricavata sulla granitica superficie del monte Rushmore, in South Dakota (U.S.A.), raffigurante i volti di quattro dei più grandi presidenti degli Stati Uniti d'America: George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln. La copertina di "In Rock" non fa altro che sostituire, ai volti di questi illustri signori, quelli dei cinque membri dei Deep Purple, mettendo Blackmore al posto di Washington, Gillan al posto di Jefferson, Jon Lord al posto di Roosevelt e Glover al posto di Lincoln, lasciando il povero Ian Paice un po' in disparte sul manto roccioso, avendo... beh, finito le facce. I Deep Purple sostituivano loro stessi a personaggi che, per gli americani, hanno una valenza ben più profonda di quella che hanno, per noi, grandi figure politiche come ad esempio un Pertini... direi più simili a un Giulio Cesare, ma molto più vicine di quest'ultimo nella memoria collettiva. Oserei dire, infatti, che i presidenti immortalati sul Monte Rushmore sono circondati da un'aura al limite del sacrale. La sovrapposizione della rockstar, come nuovo mito contemporaneo, a figure di spicco dell'immaginario collettivo, così come il concetto di "dissacrazione" intrinseco all'azione stessa, non è cosa nuova, ma affonda le sue radici in una costante evoluzione dei costumi che dimostra, ancora una volta, come nulla muoia, ma tutto si trasformi. I faraoni tendevano a farsi associare a determinate divinità, così come avrebbero fatto, più tardi, prima le grandi casate romane, poi gli imperatori stessi, una volta sradicati completamente gli ideali laici repubblicani. Nei primi mosaici cristiani d'età tardo-antica, il Cristo era spesso rappresentato con le fattezze sbarbate del dio Apollo, e gli apostoli tutt'intorno in abiti senatoriali; nel frattempo, figure mitiche e festività pagane venivano assimilate nella nuova religione, sovrapponendo nuovi riti a quelli vecchi, dando così vita alla cultura che dominerà ciò che oggi definiamo "medioevo". Il rinascimento avrebbe riscoperto il classicismo, reinterpretandolo però a suo modo e integrandolo ai propri tempi, alle proprie peculiari dinamiche sociali. È da questo preciso momento che possiamo cominciare a intravedere, con molta più chiarezza, l'origine del linguaggio che avrebbe portato alla cover art di Deep Purple in Rock, nonché a una miriade di prodotti simili che col tempo avrebbero inevitabilmente modificato, ancora una volta, la nostra percezione del mondo. Se infatti fin'ora il processo di "sovrapposizione iconografica" era stato fisiologico, dovuto a precise dinamiche sociali e strettamente connesso all'esercizio del Potere, dal rinascimento in poi tale processo inizia un percorso inedito, capace di unire il rispettoso omaggio alla vanitosa dissacrazione. Perché ciò fosse possibile è dovuta però cambiare la percezione stessa dell'artista, considerato fino alla metà del quindicesimo secolo come qualsiasi altro artigiano. Dovette infatti arrivare Michelangelo, a cambiare le cose, scolpendo la propria firma sul marmo della Pietà e dando, con quel semplice gesto, enorme scandalo tra i suoi contemporanei. Come le più grandi rockstar moderne, anche Michelangelo era poco più che ventenne, e assieme a personaggi del calibro di Leonardo, Raffaello e Caravaggio, era parte di un enorme cambiamento in atto nell'immaginario collettivo e nell'intera società occidentale. L'artista, anzi l'autore, da allora avrebbe goduto di uno status sociale finalmente proporzionato all'importanza della sua arte, finendo talvolta per essere letteralmente mitizzato. Insomma, l'artista rinascimentale era la rockstar della sua epoca. Il primo, vero antenato di Deep Purple in Rock è un affresco dei primi del cinquecento ad opera di Raffaello Sanzio: la Scuola di Atene. L'opera, situata nella Stanza della Segnatura dei Musei Vaticani, è una raffigurazione degli ideali neoplatonici che andavano affermandosi in quel periodo fra le classi più colte, compresa la corte papale: su di una scalinata posta alla base di una maestosa prospettiva centrale, i più grandi filosofi e matematici d'epoca classica, provenienti da diversi secoli e da diversi contesti, sono rappresentati nell'atto di conversare tra loro, idealmente divisi in gruppi. La grande peculiarità dell'opera, l'elemento che la rende una delle più studiate in assoluto, è che Raffaello ha prestato a ognuno dei personaggi dipinti il volto di un suo contemporaneo; alcuni sono uomini di potere, ma la gran parte, invece, sono artisti come lui: Bramante nei panni di Euclide, o forse di Archimede, il Sodoma nei panni di Ipazia, Michelangelo nei panni di Eraclito, e naturalmente Leonardo, nei panni della centralissima figura di Platone. Infine, lo stesso autore si ritrae nei panni di Apelle, pittore greco di cui non è rimasta opera alcuna. Un gesto del genere, così squisitamente ammantato di superbia, sarebbe stato impensabile anche solo cinquant'anni prima, a maggior ragione in ambiente ecclesiastico. Ma l'esaltazione della ragione e la posizione centrale dell'uomo nell'universo erano proprio come il rock 'n roll: una rivoluzione culturale che avrebbe cambiato per sempre la società, e posto i suoi rappresentanti al pari - se non al di sopra - dei grandi personaggi del passato. Da quel momento in poi, la concezione di arte non sarebbe stata mai più la stessa.
Lasciamo passare i secoli, torniamo in età contemporanea e... rubiamo la Gioconda! Era il 1911 quando lo stranoto dipinto di Leonardo venne trafugato dal Louvre e tenuto nascosto per circa due anni, appeso in bella mostra nella cucina di Vincenzo Peruggia, il primo, improvvisato ladro di opere d'arte della storia. Vi siete mai chiesti perché la Gioconda sia un'opera così importante? Semplice: non lo è. O meglio, certo che lo è, ma non più di un'infinità di opere rinascimentali di un certo prestigio. Il valore dell'opera, oltre che nell'accenno di prospettiva aerea sullo sfondo, sta nel semplice fatto di essere un dipinto di Leonardo da Vinci, ma l'aura d'icona dell'arte tutta che oggi ammanta la Monnalisa, prima, semplicemente non esisteva: nacque infatti solo dopo la scomparsa dell'opera dal Louvre. Tutte le storie o addirittura le leggende nate in seguito - lo sguardo "misterioso", l'ambiguità sessuale e perfino le ipotetiche derive massoniche - sono tutte frutto di ricerche posticce, nessuna delle quali supportata da prove concrete. Ciò che ha ispirato questa vera e propria ossessione per la Monnalisa non è il valore intrinseco dell'opera, ma gli eventi successivi al suo "rapimento". Già dal secolo precedente l'arte tradizionale andava ormai incrinandosi, dovendo cedere il posto alla fotografia nella raffigurazione del reale. Nel '900, col furto della Gioconda, assistiamo a nuove e determinanti dinamiche. L'evento ebbe infatti una tale risonanza da entrare non solo nelle discussioni dei salotti per bene, ma anche su tutti quei media che proprio in quegli anni andavano affermandosi presso i ceti popolari: quotidiani, radio e soprattutto cartoline. Queste ultime cavalcarono l'onda dello "scoop" attraverso rappresentazioni di vario genere, fedeli o caricaturali, portando involontariamente nelle case di tutti un immaginario relegato, fino a quel momento, solamente ai musei, alle chiese e ai salotti borghesi. In parole povere, la Gioconda diveniva suo malgrado la prima, vera opera Pop della storia. Credo sia stata anche la prima volta in cui dinamiche sociali popolari abbiano anticipato, e di gran lunga, l'iniziativa degli artisti contemporanei. La famosa Monnalisa coi baffi, di Marcel Duchamp, arrivò infatti solo nel 1919, e fu un primo passo importante. Il secondo, quello decisivo, lo dobbiamo ai pennelli (e soprattutto ai baffi) di uno dei più noti artisti contemporanei: Salvador Dalí. Il pittore, designer, cineasta *eccetera eccetera* spagnolo, infatti, produsse nel 1954 una rivisitazione della Monnalisa perfettamente in linea con la sua eccentrica personalità, sostituendo il suo autoritratto a quello della soave donna rinascimentale. Non solo il gesto in sé era volutamente dissacrante, ma anche il modo: gli occhi da matto, i baffi all'insù da perfetto eccentrico d'alto lignaggio, il vanitoso autocompiacimento di cui Dalí faceva sfoggio: niente di più lontano dalla pacata autocelebrazione del povero Raffaello! Ma fu proprio quello il culmine del linguaggio in analisi, perché così come la fama della Monnalisa nacque da innovative dinamiche "proto-pop", anche il famoso monumento dei presidenti sul monte Rushmore viveva buona parte della sua notorietà grazie ai moderni media: non solo cartoline e riviste, ma anche i primi documentari televisivi. Proprio come avrebbero fatto i Deep Purple alcuni anni dopo, Dalí si sostituiva ad un'icona che era insieme storica e pop, prendendo egli stesso - simbolicamente - il posto della Storia.
Arriviamo così al 1967, appena tre anni prima l'uscita di "In Rock". In quell'anno faceva la sua comparsa un album fondamentale, per l'iconografia del rock, ovvero Axis: Bold as Love, dei The Jimi Hendrix Experience. La copertina di quel disco rappresentò la summa di tutto quanto: la vena dissacrante di Salvador Dalí, l'attenzione compositiva e la sacralità di Raffaello, l'attitudine orientale del rock psichedelico. Jimi Hendrix e i suoi Experience si sostituivano non solo a delle icone popolari, non solo a personaggi talmente importanti da avere acquisito un'aura mistica, ma a vere e proprie divinità, dando vita alla reale, pura, primigenia figura della Rockstar. Sì, quella con la "R" maiuscola, perché se c’è un artista che ha spianato la strada all’hard rock come lo conosciamo, anche e soprattutto in senso estetico e filosofico, quello è stato proprio Jimi Hendrix.
Torniamo così finalmente al 1970 e a Deep Purple In Rock, un'opera iconograficamente derivativa ma dotata d'una potenza espressiva e immaginifica sopra le righe, capace d'influenzare l'immaginario collettivo con la forza dei suoi brani e dei suoi numeri da capogiro. Oltre alla sovrapposizione della rockstar alle icone della storia, quella cover art racconta anche qualcos'altro: un pezzetto di quegli anni magici di musica e ispirazione, dominati da band e artisti britannici alla conquista dell'America, un sogno dorato dai contorni quasi mistici. I Beatles, gli Stones, i Black Sabbath e i Led Zeppelin, con il loro "How the West Was Won": tutti avevano "invaso" gli U.S.A. con la loro musica, riprendendosi un poco della gloria perduta nella Guerra d'Indipendenza, e i Deep Purple non vollero certo fare eccezione. Mettere i loro musi inglesi al posto dei grandi Padri degli Stati Uniti d'America era un'azione tanto sfacciata quanto vincente, da vera stella del rock; una pensata niente male, in vista di un tour che sarebbe durato la bellezza di quindici mesi. In realtà la band avrebbe voluto osare ancora di più, usando la stessa foto del monumento anche sul retro di copertina, ma col nome del gruppo al contrario e, al posto dei volti, i fondoschiena dei quattro grandi presidenti, come fossero accucciati dietro la montagna. Evidentemente questo sembrò un pelo troppo perfino per i Deep Purple, ma d’altronde erano altri tempi. La lezione venne assimilata talmente bene che gli Uriah Heep, nel 1974, proposero una copertina in cui i musicisti erano ritratti con fattezze marmoree su di un piedistallo; l'album era Wonderworld, e il messaggio era la trasfigurazione della rockstar in monumento, in icona di massa dai contorni tanto eterei da sfiorare i confini del mito. Ad ogni modo, nemmeno a dirlo, Deep Purple in Rock ebbe notevole successo, ma fu il tempo a consacrarlo alla leggenda, e con esso, una copertina divenuta iconica della golden age del Grande Rock.

