AC/DC
Back in Black
1980 - Atco Records

ANDREA ORTU
15/12/2017











recensione
Mettetevi comodi, ragazzi, perché per capire a fondo l'estetica di un'opera imprescindibile come Back in Black, degli AC/DC, c'è bisogno di una corposa introduzione, un riassunto di quelle dinamiche socio-culturali legate non solo alla nascita del Rock, ma anche di un immaginario destinato a entrare nelle case e nelle vite di tutti, in tutto il mondo. Un immaginario di cui il settimo album degli AC/DC, arrivato nel 1980 con un artwork completamente nero, è insieme punto d'arrivo e di svolta. Una svolta clamorosa.
Da che mondo è mondo, l'evoluzione della società, della cultura e di tutto ciò che definiamo "civiltà", è rappresentata da un semplice e preciso concetto, divenuto proverbiale metafora nell'espressione coniata dal filosofo Bernardo di Chartres: Siamo come nani sulle spalle di giganti. Questo pensiero, indicativo dell'umana capacità di evolversi e migliorare attraverso la conservazione del sapere, e con essa dell'eredità del passato, è parte integrante di ogni aspetto della nostra specie. Tra questi, naturalmente, vi è anche la musica. Nel novecento abbiamo assistito a cambiamenti tanto rapidi quanto radicali, sia nella tecnologia che nella politica, nella società e quindi, infine, pure nell'arte. La pittura, la scultura, e più in generale le arti figurative tutte, sono state scosse nelle loro fondamenta dall'invenzione della fotografia, dall'evoluzione della propaganda e dalla nascita del concetto, oggi fondamentale, di cultura pop. La musica, su binari diversi ma paralleli, ha subito prima l'influsso di cambiamenti sociali importanti, tra cui la progressiva integrazione della sottocultura afroamericana, e poi di scoperte tecnologiche determinanti, culminate in quella che viene ricordata come "Rivoluzione elettrica". In Europa, l'eredità della classica e della lirica ha dato luogo a una varietà di sottogeneri più o meno in tutto il continente, distinguibili tra popolari - e spesso ballabili - a sperimentali e di nicchia, intellettualmente e compositivamente estremi, al limite della cacofonia e talvolta anche ben oltre. Negli Stati Uniti, nel frattempo, le cose andavano evolvendo in maniera completamente differente, grazie ad un immane calderone di etnie e costumi che, se sul piano sociale si traduceva in difficoltà concrete e potenziale ancora tutto da assimilare, in quello culturale delineava un quadro affascinante e colorito, destinato a porre le basi di quello che oggi definiamo "hard rock". Il gusto africano per la ritmica e le percussioni si univa alla tradizione orchestrale europea dando vita al Jazz, mentre, parallelamente, i canti popolari più neri si mescolavano alle tarantelle italiane e alle ballate irlandesi, a sonorità che nascevano a cavallo tra campagne sterminate e ghetti claustrofobici; nascevano il Country e il Blues, separati da diverse tradizioni culturali ma uniti dalle medesime dinamiche. A questa società così spaccata, affascinata dagli artisti di colore ma dilaniata da un razzismo neanche tanto strisciante, serviva una testa di ponte: qualcuno che portasse le novità di una controcultura fisiologicamente dinamica alle grandi masse bianche, anglosassoni ed europee. Quel ponte, infine, fu incarnato da Elvis Presley e dalla sua leggenda. Ma il complesso quadro etnico, sociale e culturale americano era necessariamente legato a quella particolare realtà, e sebbene furono molti gli artisti americani a superare gli oceani, mancava ancora quell'elemento capace di unire le nazioni e i continenti su di un piano più universale, quasi metafisico. Serviva, insomma, una nuova testa di ponte, ma stavolta non tra bianchi e neri, ma tra americani ed europei. Storicamente quel ponte è - ed è sempre stato - il Regno Unito. La Gran Bretagna godeva allora dei giusti contrasti: le difficoltà economiche e lo slancio di una lower class desiderosa di riscatto, ed un clima culturale vivace e dinamico, influenzato dalle avanguardie artistiche più estreme. La cosiddetta British invasion raccolse decine di band, artisti dalla poetica e dallo stile diversi tra loro: dagli Animals ai The Who, dagli Small Faces ai Rolling Stones, passando per The Kinks, Donovan, Cream e tanti altri, tutte realtà in grado di conciliare le tendenze d'oltreoceano a quelle europee, nuove o tradizionali che fossero. Tuttavia, fu una sola band ad incarnare quella Rivoluzione: The Beatles. Piaccia o meno, la formazione di Lennon e compagni riuscì a portare il gioco su di un livello completamente differente, qualcosa di mai visto prima per dimensioni e per intensità, muovendo dinamiche sociali, economiche e immaginifiche del tutto inedite. L'eredità dei Beatles non fu solo musicale, dunque, ma anche - se non soprattutto - concettuale ed intrinsecamente estetica. Un'eredità destinata a ripercuotersi in ogni aspetto della vita sociale dell'occidente e non solo, dando vita non tanto alle sonorità, quanto al concetto stesso di "rock" inteso come movimento, perfino come ideologia. Finita l'era dei Beatles, la rivoluzione culturale continuò ancora in Gran Bretagna, cambiando volto e colori e prefigurando l'estetica, il sound e la poetica del futuro; arrivarono così i Pink Floyd di David Gilmour, i Deep Purple, i Led Zeppelin, i Black Sabbath, i Genesis, gli americani Kiss e molti altri - tra cui, nel 1973, gli AC/DC.
Quest'introduzione serviva per capire il concetto già espresso in apertura: "siamo come nani sulle spalle di giganti", rapportato all'estetica concettuale e immaginifica alle origini del rock, ed infine naturalmente all'album in esame, quel Back in Black che, a mio avviso, ha dato il via ad una nuova epoca. Chiariamoci, non sto dicendo che gli AC/DC abbiano inventato nuove sonorità - non con questo album; né sto affermando che abbiano inventato loro, un certo tipo di estetica. Sto dicendo che quell'estetica, e insieme ad essa un background filosofico enorme e variopinto, gli AC/DC l'hanno resa universale. Sono davvero ben pochi, d'altronde, i dischi in grado di vendere qualcosa come cinquanta milioni di copie, e se è vero che il valore di un'opera non si misura dalle vendite, dobbiamo tuttavia ammettere che esse ne determinano l'impatto sulla cultura di massa; le vendite, in sostanza, sono l'unità di misura della permeabilità nell'immaginario collettivo di un certo tipo di linguaggio estetico, poetico e filosofico. E no, un parallelo contemporaneo tra vendite e click non è del tutto compatibile a tale concetto, poiché c'è una bella differenza tra una fruizione sporadica e disimpegnata, rispetto ad una che richiede anche solo un minimo di sforzo economico ed intellettuale. Back in Black fu un vero e proprio inizio, ma ogni nuova Era nasce dalle ceneri di quella precedente. Dopotutto, nel 1980 gli AC/DC avevano già pubblicato sei album e ottenuto grande notorietà, soprattutto grazie a quel gioiellino di Highway to Hell, e ognuna di queste opere vantava, e vanta, la firma del cantante Bon Scott. Quello di Bon Scott è un nome che chiunque, rockettaro o metallaro che sia, conosce benissimo. La sua vicenda è parte della narrazione epica della storia del rock: prima cantante semi-sconosciuto in ascesa, poi il grave incidente con la moto, i lavoretti sporadici e infine la rinascita, un ritorno sulle scene destinato a portare lui e la sua nuova band, gli AC/DC, nelle principali classifiche di tutto il mondo. La sua fisicità, la sua voce, il suo carattere forte ed anticonformista, il suo rapporto col sesso: tutto di Scott trasudava l'essenza stessa del Rock. Compresa una certa tendenza verso gli estremi. Come altre leggendarie rockstar, il cantante viveva la sua vita sulla breccia, su di un limite che solo i più disperati o i più Grandi, hanno il coraggio di toccare con mano. Alcuni a quel tocco sopravvivono, di solito correggendo un po' il tiro, crescendo e maturando, anche al costo di perdere un poco dell'antica scintilla. Bon Scott non fu tra questi. Fu infatti trovato morto il 19 febbraio del 1980, ufficialmente per "intossicazione acuta da alcol". Il suo corpo fu rinvenuto nell'automobile dell'amico Alistair Kinnear - nome quasi profetico, nell'immaginario rock - con il quale aveva passato una serata all'insegna dell'autodistruzione. Comunque non fu l'unico, quell'anno. Quasi fosse destino, il segno di un cambiamento sociale immane e radicale, il 1980 vide la fine di un'epoca nella scomparsa di John Bonham, dei Led Zeppelin, e di John Lennon, ex Beatles. Il primo morì anch'egli a causa dell'alcol, e la sua scomparsa sancì la fine della "più grande rock band del mondo". Il secondo, invece, morì ucciso: solo un modo diverso di vivere sul confine tra la vita e la morte, chi con l'alcol, chi con le parole. E com'è giusto che sia, non ci sarebbero mai più stati né Led Zeppelin, né possibili reunion dei Beatles. Ma gli AC/DC sarebbero rimasti, sopravvivendo non solo alla fine del cantante, ma alla fine di un mondo. Per il gruppo fu uno shock, un dramma umano e professionale, poi arrivarono i tentennamenti: i sacrosanti dubbi riguardo il futuro; ma la band aveva ancora molto da dire, troppo lo slancio accumulato, per poter già scrivere la parola fine. Dopo una ricerca tanto rapida quanto evanescente, la scoperta della voce di Brian Johnson arrivò con l'inaspettata casualità dei miracoli. Sembrava impossibile, irrealizzabile, eppure la grinta e la personalità di Johnson, al servizio di un capolavoro hard rock senza precedenti, fugarono ogni possibile dubbio sia dei musicisti che dei fans. All'album e al conseguente tour mondiale, il pubblico rispose con un entusiasmo ed un consenso totali, proclamando gli AC/DC come la nuova "più grande band del pianeta". Un Olimpo davvero per pochi. Un'avventura che sembra ancor più surreale se si pensa che Back in Black - l'album più venduto di sempre dopo "Thriller" - arrivò sul mercato a soli cinque mesi dalla morte di Bon Scott. E non arrivò certo accompagnato da trombe e fanfare, ma dai sussurri dei fans, che di orecchio in orecchio tendevano i fili di una ragnatela sociale in trepidazione, come in attesa di una sorta di presagio. Soprattutto, non arrivò con il tripudio di colore tipico del decennio precedente, né con le strizzatine d'occhio intellettuali o altre amenità. Back in Black, come suggerisce il suo nome, arrivò completamente nero. Il nulla, un'oscurità cosmica fiocamente rischiarata dal solo nome della band, "AC/DC", il cui caratteristico font aggressivo e spigoloso si trova definito in sottili linee bianche, quasi invisibili, nella loro voluta inconsistenza, mentre il titolo appare pressoché impalpabile, grigio su nero che si affaccia dall’ombra, unica concessione alle preoccupazioni dell'etichetta. Il colore della copertina, così come il titolo dell'album e le campane a morte che anticipano l'inizio di "Hells Bells", richiamano ovviamente il lutto: quello per la scomparsa di Bon Scott. Ma non è solo questo. Infatti, così come non solo il sound, ma l'intero background filosofico del gruppo era figlio del lungo cammino descritto in precedenza, l'estetica di Back in Black affonda le sue radici su di un percorso definito e graduale, frutto dell'arte contemporanea e della cultura pop. Siamo come nani sulle spalle di giganti, ricordate? E i giganti, in questo caso, sono nuovamente i Beatles, perché se Back in Black ha un antenato, quello è il leggendario Album Bianco. E no, non solo per l'artwork monocromatico: dopotutto, parliamo dell'opera cui appartiene "Helter Skelter", un brano d'importanza fondamentale nell'intera storia delle sonorità dure. A molti perfino dispiace, che un simile caposaldo venga da una band come i Beatles, raramente associabile - oggi - all'immaginario rock, ma se è vero che nel '69 certe sonorità erano già nell'aria, è ancora una volta vero che unicamente la fama dei Beatles, solo la luce di una stella così universalmente brillante, poteva portare l'intimo messaggio di quelle sonorità al mondo intero. E così è stato. Oltre al sound, però, c'è anche l'aspetto immaginifico: se oggi per le più oscure derive del Metallo Pesante è più che normale, flirtare con concetti quali satanismo, paganesimo, sciamanesimo, morte, rinascita, kali yuga o quant'altro, sdoganando un certo tipo d'immaginario e di estetica fino a ridurli spesso - non sempre - a giocoso pretesto, a una sorta di feticcio volutamente stereotipato, nel 1969, diversamente, certe cose erano prese col massimo della serietà e della convinzione. Prima che i Black Sabbath codificassero del tutto tale linguaggio, cosa che non avvenne ai loro esordi, erano molte le band che più o meno velatamente offrivano uno spaccato delle nuove tendenze neo-pagane, sia le più rinomate, come Beatles e Stones, sia quelle meno conosciute ma ancora più schierate, come nel caso di Blue Öyster Cult e Coven. Tuttavia è sul finire del decennio, con il White Album, che un'era finì e un'altra ebbe inizio. Fino a quel momento, il rock 'n roll era stato percepito dalla massa come parte integrante del cosiddetto "movimento hippie", seppure alcuni elementi, come la cultura biker americana, oltre che le stesse radici blues, stessero iniziando a fondersi con esso e a modificarlo dall'interno. Poi arrivò Charles Manson. Manson non era altro che un disturbato figlio di puttana, un musicista mediocre circondato da una banda di disadattati, ma la serie di brutali omicidi attribuiti alla sua volontà, tra cui quello di Sharon Tate, giovane attrice all'ottavo mese di gravidanza, contribuirono a creare una sorta di fenomeno mediatico senza precedenti. Sullo specchio del bagno della Tate, a pochi passi dal luogo del delitto, un'inquietante e confusa scritta: "helter skelter". Proprio la canzone dei Beatles, implicito riferimento al caos. Sulla porta d'ingresso anteriore, scritta col sangue della donna, la parola "pig", maiale, probabile riferimento ad un altro brano dei Fab Four: "Piggies". Molto tempo dopo sarà lo stesso Charles Manson ad ammettere l'influenza dei Beatles sulla sua mente deviata, ed in particolare di pezzi come "Helter Skelter" e l'insensata "Revolution 9". Nonostante l'aperto disprezzo della cosiddetta Famiglia, la setta di Manson, per la comunità afroamericana e i neri in generale, la combriccola satanista-orgista-droghista fu immediatamente e inesorabilmente associata agli hippies. Mentre i media ne approfittavano per demolire il "pericoloso" fenomeno dei Figli dei fiori, fino a trasformarlo nella ridicola macchietta che immaginiamo oggi, il mondo del rock assimilava l'intera faccenda in maniera assai peculiare: da una parte andava distaccandosi dagli ideali che avevano caratterizzato la cultura hippie, pur mantenendone alcuni elementi cruciali, dall'altra, tuttavia, assimilava quell'estetica oscura e sinistra con cui gli omicidi della Famiglia avevano ammantato la scena rock. Aveva inizio una fascinazione del male completamente differente, rispetto a quel sincero revisionismo in chiave neo-pagana che aveva caratterizzato il rock 'n roll fino ad allora. Mi tocca dirlo per chi proprio non ha orecchie per intendere: "fascinazione del male" non significa affatto condividere gli ideali o i mezzi della Famiglia Manson, tantomeno i suoi delitti. Quest'attrazione morbosa ha a che fare soprattutto con una nuova estetica che sul palco trova il suo terreno ideale, lasciando agli artisti la possibilità di esprimere un edonismo del tutto nuovo: oscuro, ruvido, a volte brutale. Gli AC/DC quell'edonismo l'avevano già ampiamente esplorato, come dimostra il consapevole sarcasmo della cover art di Highway to Hell, i Led Zeppelin l'avevano sapientemente sfiorato e i Black Sabbath fatto del tutto loro. Ma nonostante l'importanza seminale di Zeppelin e Sabbath, e di tante altre band del decennio settantiano, è stato Back in Black a portare il nuovo immaginario nelle case di tutti, dall'avvocato britannico alla casalinga americana, dallo studente australiano alla dottoressa italiana. Così come l'Album Bianco dei Beatles aveva dato origine alla diffusione di un linguaggio, Back in Black ne portava l'evoluzione al suo massimo compimento, alla trasformazione di un immaginario da "riservato", e quindi implicitamente "elitario", a "popolare", regalando al mondo gli anni d'oro dell'hard rock e soprattutto dell'Heavy Metal: gli anni '80, un decennio in cui a scuola - specialmente in America e Regno Unito - eri un figo se vestivi di pelle nera e portavi i capelli lunghi, e gruppi glam rock, hard rock, heavy metal e persino thrash metal, scalavano a decine le classifiche mainstream di tutto il pianeta. E quando incontravi per strada qualcuno vestito da "metallaro" e poi scoprivi che, magari, i suoi riferimenti musicali erano Cyndi Lauper e Madonna, capivi che la rivoluzione ormai prescindeva del tutto l'aspetto prettamente artistico. Il Rock, inteso nell'interezza dei suoi illustri antenati e dei suoi più duri derivati, non era più fenomeno di culto, per quanto ampio, ma fenomeno di massa. E così la sua estetica.
Ma l'influenza degli AC/DC non si ferma qua. Back in Black, attraverso la sua capillare diffusione, aveva definitivamente sdoganato un sistema ideologico e filosofico, e con esso il suo linguaggio, rendendolo de facto innocuo. Solo che innocuo, Back in Black, non lo era per nulla. La sua essenza funerea, così perfettamente espressa in quel nero formale, privo di sfumature, conteneva una rabbia e una rivalsa la cui vitalità si contrapponeva al dramma della morte. Vita e Morte, questo era Back in Black. E la morte, così come la sofferenza elemento centrale di tanto metal contemporaneo, contrapponeva il suo nero al bianco assoluto e fatale del passato, incarnato a suo tempo dai Beatles, una band la cui intrinseca solarità s'adombrava spesso con inquietanti velature di mistico sadismo. È un quadro che, nella sua interezza, mette in scena la contrapposizione e l'unione tra passato e presente, lo yin e lo yang del Rock e della sua narrazione. Infine, l'eredità degli AC/DC sarebbe sopravvissuta al mutamento della scena, al deterioramento dell'immaginario da loro stessi diffuso, entrando nel background di nuovi artisti che, piuttosto che adattarsi passivamente, preferirono usare Back in Black e poche altre opere affini come ideale punto di ripartenza. L'omologazione di un'estetica non più ribelle, né di nicchia, spinse sempre più musicisti a portare quell'eredità alle sue estreme conseguenze, sia estetiche che sonore, dando il via a realtà come Metallica, Slayer, Blitzkrieg e molte altre, e col tempo, alla codifica di nuove sonorità espresse sotto le comode etichette di Thrash Metal, Death Metal, Black Metal e quant'altro, perfino quella di Grunge. Ancora una volta, prima che di sound parliamo soprattutto di estetica, di attitudine. Il nero mortuario di Back in Black era ora parte integrante dell'oscurità concettuale di nuovi artisti, i quali facevano della morte il perno centrale del loro immaginario e della loro poetica, a volte senza nessuna di quelle vivide sfumature che definivano - e definiscono ancor oggi - l'essenza degli AC/DC. Nuove derive di puro Metallo, quindi, caratterizzate dal rifiuto per qualsiasi mezza misura o compromesso, qualsiasi possibile sprazzo di ottimismo, totalizzanti e totalitarie, tanto nell'estetica quanto nel sound. Un affascinante ritorno all'estremismo dell'arte concettuale e minimalista, di cui l'artwork di Back in Black - così come quello del White Album - è intrinsecamente debitore. Penso che solo uno sciocco, oggi, potrebbe negare il fascino di questi nuovi estremisti del sound, di quest'oscurità elettrica che non ammette quasi mai alcun colore, se non l'assolutezza del bianco, ancora una volta, o il rosso scuro del sangue. Nonostante tutto, però, credo proprio che io rimarrò legato a quegli artisti che fra i capelli alternavano i fiori alle corna caprine, con due bionde tra le lenzuola e una foto di Muddy Waters vicino al letto.

